A caccia della "vita assente" dell'imprendibile Rimbaud

Renato Minore dedica un saggio-inchiesta ai misteri ancora irrisolti sul poeta. Dalla provincia all'Africa

A caccia della "vita assente" dell'imprendibile Rimbaud

Chissà se qualcuno, vedendolo uscire da un palazzo di Piazza del Duomo, a Milano, quel giorno del 1875, indovinò di trovarsi di fronte a un immenso poeta. Era soltanto un ragazzo francese, ospite di una vedova cui forse lo legava un rapporto ambiguo, un vagabondo con quell'aria viziosa e sprezzante che hanno esclusivamente certi giovani d'Oltralpe. Si chiamava Arthur Rimbaud. «Alto, ben piantato, quasi atletico, con un viso perfettamente ovale di angelo in esilio, capelli castano chiari in disordine, e occhi inquietanti, di un azzurro pallido», così lo descrive in I poeti maledetti Paul Verlaine, suo amico, suo amante durante una relazione tanto burrascosa finita con un colpo di pistola, e sostenitore della sua gloria letteraria: di cui Rimbaud, ormai, non sapeva più che farsi. Nato nelle Ardenne nel 1854, nel 1875 Arthur Rimbaud aveva scritto tutto quello che c'era da scrivere: poesie folgoranti come Il battello ebbro, libri di straordinaria forza veggente come Una stagione all'inferno e Illuminazioni. Ed ora era difficile seguire le sue tracce.

Sbandato, ribelle a tutte le convenzioni, costretto da un demone a cercare l'altro dentro se stesso, Rimbaud viaggiò tra Belgio, Italia, Inghilterra, Germania, Svezia, Danimarca, Norvegia, si spinse sino a Giava, in attesa di abbandonare definitivamente la vecchia Europa e ricominciare una vita di mercante tra Asia e Africa, tra Aden e Harar, in Abissinia. Però era nel suo destino tornare sempre a Charleville, la città natale odiata, «superlativamente idiota tra tutte le cittadine di provincia» e a Roche, nella fattoria della madre, poco distante. Ed è proprio lì, a Roche, vicino ai resti della fattoria distrutta dai tedeschi durante la Prima guerra mondiale, che comincia il libro dedicato a Rimbaud da Renato Minore (Rimbaud. La vita assente di un poeta dalle suole di vento, Bompiani, pagg. 235, 12), un libro che si presenta innanzi tutto come una inchiesta, condotta con una ariosa varietà di strumenti, sul mistero di un poeta dalla vita inafferrabile. L'inchiesta ci porta da Roche, in un viaggio su un taxi il cui conducente sa di Rimbaud a mala pena che si tratta di un «poeta bambino», a Charleville, con la sua piazza dove resiste l'abitudine dei concerti che ispirò all'autore adolescente una delle sue poesie più spavalde e irriverenti, Alla musica, con la sua Biblioteca, il Museo Rimbaud, la casa sul lungofiume dove il poeta abitò, il cimitero dove è sepolto, in una delle tombe più visitate di Francia. E poi il viaggio prosegue, e il mistero invece che chiarirsi si infittisce.

È davvero di pugno del poeta la grande iscrizione RIMBAUD leggibile ancora oggi sulla pietra di Luxor, in Egitto? Confesso che quando ci capitai davanti lo esclusi, non potevo credere che il poeta del Battello ebbro, il veggente, in fuga da tutto e da se stesso, ricorresse a quel gesto narcisistico da turista. E i suoi amori? Difficile dire che cosa lo ha legato davvero a Paul Verlaine, che cosa alla vedova di Milano, che cosa alla anonima infibulata di Harar, per penetrare la quale è forse soltanto leggenda che usò un coltello, in un sanguinoso atto di violenza. Partecipò davvero alla Comune di Parigi, nella primavera del 1871, o la sua ribellione aveva connotati esclusivamente individuali e esistenziali, una rivolta contro la borghesia come sistema mentale, all'Europa come civiltà? Non so se il mistero della sua seconda vita, da mercante, certo di armi, forse persino di schiavi, possa risolversi con l'osservazione che il razionalista Moravia consegnò a Minore, secondo la quale Rimbaud lasciò la poesia perché, come capita spesso ai francesi, volle arricchirsi coi traffici e il commercio.

Rimbaud in Africa si avvicinò al misticismo, ed è così, come mistico, che un grande autore arabo come Adonis ce lo presenta in La preghiera e la spada. Lesse il Corano, pretese persino di spiegarlo ai suoi interlocutori mussulmani, attirandosi la loro ira. Pare impossibile che si sia convertito all'islam. Ma di sicuro ne fu attratto. Mentre si fiaccava in lunghissime traversate del deserto per aumentare il proprio capitale, un tarlo spirituale agiva dentro di lui, che da ragazzo aveva scritto al suo professore Georges Izambard sulla necessità di diventare veggente, di vivere la sregolatezza di tutti i sensi, di capire che «IO è un altro». Che non si finisce di inseguire quello che non siamo. Rimbaud tornò in Europa a curarsi un tumore al ginocchio. Per l'ultima volta fu a Roche, nelle Ardenne materne, poi in un ospedale di Marsiglia, città mediterranea e protesa verso l'Africa per eccellenza. Gli venne amputata una gamba, ma non valse a salvarlo.

Lui, che era vissuto «come un angelo tra le mani di un barbiere», morì tra le braccia della sorella Isabelle, dopo la visita di un prete. Angelo ormai della poesia dell'avvenire, dell'eternità ritrovata dove il mare «se ne va con il sole».

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