La caccia al fascista, dopo il 25 aprile 1945, non conobbe limiti. Non ne furono risparmiate anche le menti più eccelse che ebbe l'Italia, com'è il caso dell'insigne accademico, geografo, esploratore e geologo fiorentino Giotto Dainelli Dolfi, il quale, per uno strano paradosso, si era sempre considerato un nazionalista di accesi sentimenti monarchici. Aveva accettato con riluttanza l'iscrizione al Fascio soltanto nel 1926, e, alla fondazione della Rsi, non aveva preso la tessera del Partito fascista repubblicano guidato dal suo concittadino Alessandro Pavolini.
Nato nel 1878, Dainelli, arca di sapere e autore di seicento opere scientifiche, era una personalità di tale prestigio morale, da raccogliere l'eredità di Giovanni Gentile alla presidenza dell'Accademia d'Italia, dopo l'assassinio del filosofo, per mano dei Gap comunisti, il 15 aprile 1944. Alla sua designazione si era giunti perché Giotto incarnava la continuità dello spirito gentiliano, con il suo generoso istinto pacificatore.
La vicenda merita una chiosa. Il ministro dell'Educazione nazionale, Carlo Alberto Biggini, non riuscì infatti a piegare le resistenze che Dainelli opponeva alla nomina, tanto che non l'accettò mai formalmente: gli piovve sulla testa. Ma, sulle sue spalle, il regime di Salò fece gravare un'altra responsabilità. Quella di guidare il Comune di Firenze, come podestà, nei mesi che precedettero l'arrivo degli Alleati. Anche in questo caso, Dainelli rifiutò la carica, ma poi dovette chinare il capo, perché il decreto di nomina era già stato emanato.
Questi due esemplari conflitti di coscienza, se, da un lato, illustrano l'altissimo spirito di servizio dell'uomo, dall'altro mettono a nudo il difetto di legittimazione sostanziale che la Rsi aveva, agli occhi di Dainelli. Da podestà, in ogni caso, il professore fece miracoli, in campo umanitario e culturale: oltre a salvaguardare le opere d'arte, intervenne a protezione dei prigionieri dei tedeschi, profuse aiuti a sinistrati e sfollati, ottenendo la liberazione di un professore universitario rastrellato dai germanici, soccorrendo molti ebrei e offrendo la tessera alimentare forzata alla famiglia di un condannato a morte.
E, quale presidente dell'Accademia d'Italia, realizzò un capolavoro di dedizione. Nel luglio del 1944, riparò sul lago di Como, a Villa Carlotta di Tremezzo, dove stabilì la sede della gloriosa istituzione culturale, restando asserragliato, da solo, nella notte, dentro la fastosa residenza, per proteggere dall'incursione dei partigiani il patrimonio che aveva messo in salvo: beni archivisti d'inestimabile valore, tra cui spiccava il carteggio verdiano.
Sapendo che il Senato della cultura, in quanto fascista, non sarebbe sopravvissuto nel dopoguerra, provvide a configurare, con depositi bancari effettuati a Como, la distinta situazione patrimoniale delle due accademie: quella d'Italia, e quella dei Lincei, che avrebbe poi assorbito la prima. In tal modo, riuscì a salvaguardare le sontuose dotazioni delle due somme istituzioni.
Il 27 aprile 1945, il giorno in cui Mussolini veniva arrestato poco distante, a Dongo, Dainelli, in quanto dignitario del regime, venne convinto a cercare scampo, allontanandosi da Villa Carlotta. La sua odissea viene svelata da un documento inedito, il diario della sorella del geografo, Brunetta Dainelli Puccioni.
Raggiunta l'opposta riva di Bellagio, l'accademico, scortato da un milite, inizia un calvario, percorrendo i sentieri tra la costa e la montagna. Scrive sua sorella: «Impossibile trovare alloggio nei vari paesetti. Ad un certo punto sono fatti segno di un nutrito fuoco di fucileria e circondati dai partigiani. Buttati bocconi, fanno segno di resa. Sono presi e portati nel loro rifugio, e dopo interrogatorii non troppo gentili, accompagnati a Nesso, dove li lasciano e dove pernottano. In tutto, nove ore e mezza di montagna».
Dainelli era un uomo di quasi settant'anni e soltanto la sua lunga preparazione alpinistica valse a salvarlo da quella drammatica avventura. Con mezzi di fortuna, ripara a Como, dove, all'affannosa ricerca d'anonimato, si trova a condividere provvisoriamente un appartamentino con il suo amico Beppino della Gherardesca, senatore del Regno ed ex podestà di Firenze.
Annota la sorella: «Giotto dorme per terra sopra una materassa di crine. Beppino fa la spesa, si fanno da cucina e tutto il ménage da loro». Nel mese di maggio, braccato, senza più un tetto, Dainelli si reca a Milano e bussa alla porta dell'Università Cattolica. Ma padre Agostino Gemelli, fondatore e rettore dell'ateneo, gli nega asilo.
Stremato, Giotto risale allora la via del Lario, per cercare rifugio a Villa Camilla di Domaso, dove abitano la sorella Brunetta e il nipote Bruno Puccioni, sfollati colà con la famiglia. Rimane a letto per 24 giorni, sfiancato dalla febbre.
Verso la metà di giugno, ristabilitosi, lo scienziato parte per Roma, dove è richiesta la sua presenza, per il passaggio delle consegne, tra le due accademie. Ma, una volta nella Capitale, viene denunciato per collaborazionismo.
Inizia così il lungo calvario della proscrizione. Si ritrova espulso, per indegnità, dall'Accademia dei Lincei. Poi, all'Università di Firenze, una spietata macchina si mette in moto per poterlo espellere, con marchio d'ignominia, anche dal mondo accademico. Una Commissione, costituita ad hoc, e composta tra gli altri dall'italianista Giacomo Devoto e dal giurista Piero Calamandrei, segnala il suo nome all'Alto commissario per le sanzioni contro il fascismo.
Sottoposto a procedimento epurativo, Dainelli viene però salvato da provvidenziali testimonianze, tra cui quella dell'intellettuale israelita Angelo Orvieto, il quale certifica l'assoluta mancanza di antisemitismo nel cattedrattico. L'insigne scienziato poté così essere reintegrato nelle sue funzioni di docente universitario.
Ma l'ingratitudine dei fiorentini, lo ferì e lo indignò ancora di più, dopo quanto aveva fatto per salvare i tesori d'arte e la popolazione dallo scempio annunciato. Rientrò infatti a Firenze, soltanto poco prima di morirvi, il 16 dicembre 1968.
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