Dai vicoli di Londra alla vita da popstar

Nei cinema, oggi e domani il film sulla band inglese che ha segnato gli anni '80 E un'antologia con inediti

«L'Italia è il luogo dove abbiamo avuto le fan più scatenate. Dove le ragazze facevano cose pazzesche pur di avvicinarci. E assieme a loro ci seguivano le madri, i nonni, i bisnonni...». A parlare è Martin Kemp, mente degli Spandau Ballet, la band britannica capace negli Anni '80 di vendere 25 milioni di album e avere 23 singoli in hit parade. Gli Spandau sono a Roma, per presentare al Festival del Cinema il film Soul Boys of the Western World , un docufilm che sarà nei cinema solo oggi e domani. Ora i ragazzi di Islington navigano oltre la boa dei cinquant'anni, il loro leader Tony Hadley appare come un gentil signore che deve tener d'occhio la bilancia, ma lo charme con cui tre decenni or sono guardava dall'alto delle charts tutti gli altro gruppi è ancora lo stesso. Hanno in uscita The Very Best of Spandau Ballet: The Story , una raccolta con tre inediti, e in programma a fine marzo un tour che li porterà a Milano, Torino, Padova, Firenze e Roma. Ma la vera sorpresa è questo film, diretto con sensibilità da George Hencken, con una meticolosa ricerca d'archivio, tra circa 300 ore di materiale girato. La regista ricostruisce uno spaccato inedito dell'Inghilterra tatcheriana, partendo dai marciapiedi di Islington dove si sono incontrati Hadley e compagni, figli della classe operaia, cresciuti durante l'eclissi del sogno piccolo-borghese che aveva alimentato il Dopoguerra, in un momento storico in cui la celebrità sembrava l'unica maniera di evitare un futuro di stenti. Suggestionati da Bowie e dalla musica nera amata dai genitori, convinti dal punk che ognuno potesse imbracciare una chitarra. E convertiti al suono dei sintetizzatori dopo aver ascoltato Kraftwerk e Ultravox. Gli Spandau nascono così, nei club come il Blitz di Covent Garden, dove prendeva forma, tra passamaneria dorata, berretti da soldatino, pantaloni a cono, acconciature cubiste, l'estetica new romantic: uno stile stravagante che cercava in qualche modo di essere elitario. «Amo la prima parte del film, dove viene raccontato come eravamo all'inizio», spiega Hadley. «In Italia siamo diventati famosi solo più tardi, con l'esplosione dei videoclip. Ma il mondo da cui venivamo era molto piccolo. Il film mostra come le cose per noi siano cambiate in fretta, la pressione a cui siamo stati sottoposti. E a cui non eravamo preparati».

C'è un spezzone del documentario che è una vera chicca, un quiz televisivo in cui i concorrenti sono gli Spandau da un lato e dall'altro i Duran Duran. Spiega il batterista John Keeble: «I Duran erano tra i nostri avversari all'epoca. Ma non gli avversari in assoluto. C'erano così tante artisti importanti: Wham!, Culture Club, Sade...».

E si vede anche un filmato del backstage delle registrazioni di Do They Know It's Christmas , il singolo scritto nel 1985 da Bob Geldof per lanciare l'operazione Band Aid. Gli Spandau arrivano in berlina nera, con tanto d'autista, ma poi si fermano nel corridoio a chiacchierare e fumare con gli altri, e quando bisogna decidere chi canterà per primo, Tony Hadley si fa avanti, senza formalità, come quando si esibiva per le strade del suo quartiere per il Giubileo della Regina, coi genitori sotto il palco ad ascoltarlo.

E anche adesso, a vedere il calore e la disponibilità con cui firmano autografi e si fanno fotografare con un fan della prima ora, sembrano ancora i ragazzi di Islington. Meno compatti di un tempo, forse (una lunga contesa sui diritti d'autore li ha divisi per anni), ma ancora entusiasti di essere qui, a provare a mettere assieme con leggerezza anima e stile, come una volta.

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