Da qualche tempo si ha la penosa impressione che per quasi tutte le famiglie ideologiche presenti in Italia la democrazia sia una cosa buona finché consente di raggiungere i fini iscritti nei programmi dei vari partiti o movimenti che di quelle famiglie sono il braccio secolare. La democrazia, in altre parole, è riguardata come un bene strumentale, apprezzabile, in definitiva, solo se consente alle cause giuste di prevalere sulle ingiuste. Quali siano giuste e quali ingiuste resterà sempre motivo di contrasto ma lo stile di pensiero che accomuna i seguaci dell'Illuminismo e quelli della Tradizione, cattolici e comunisti, socialisti e conservatori, liberisti e protezionisti, europeisti e nazionalisti sembra essere lo stesso: quello del demos è il peggiore governo possibile ad eccezione di tutti quanti gli altri soltanto se grazie ad esso «andiamo a stare meglio».
Nel più profondo studioso di questa forma di governo, Alexis de Tocqueville, la democrazia della Nuova Inghilterra, non era il toccasana dei mali sociali né la garante del benessere collettivo bensì la registrazione fedele delle garanzie che i cittadini chiedono al governo, era il rispetto incondizionato delle credenze e opinioni altrui, quali che fossero, era l'idea che la libertà di coscienza e l'autodeterminazione della volontà contavano più delle scelte concrete. Se far entrare nelle menti delle persone la nozione che qualcosa una legge, un'istituzione non è bella in sé ma perché la si è scelta liberamente, è già difficile, nell'età dei populismi in espansione, l'impresa diventa quasi impossibile. E anzi rischia di ingenerare, in quella parte dell'opinione pubblica che legge i giornali e segue gli avvenimenti politici, un rigetto della politica che finisce per rimettere in gioco la regola un uomo, un voto, base del governo del popolo.
Tutti eguali, nella cabina elettorale, d'accordo! Ma se poi vincono i pentastellati o i leghisti?Per molti, il rimedio consiste, al fine di evitare colpi di testa, nel chiamare alle urne i cittadini il meno possibile e nel consegnare le redini dello Stato, nella politica interna come nei rapporti internazionali, alle élite responsabili che sanno «qual è il bene del popolo»: alti funzionari, tecnocrati, banchieri, esperti vari, manager usciti dai più prestigiosi Politecnici, economisti di governo etc. Se poi le politiche varate dalle suddette élite non piacciono agli amministrati, che se ne ritengono vittime (a ragione o a torto), bisogna far di tutto per impedire che essi cadano nelle grinfie di volgari e abili demagoghi! «Oh tempora, oh mores! Dove stiamo andando, dove finiremo?» Il grido di dolore che si leva da quanti temono la ribellione delle masse diventa la giustificazione per conferire un potere sempre più esteso a dirigenti non eletti e, pertanto, saggi e disinteressati.
Sennonché, la tecnocrazia, che sta diventando l'ideale occulto di un numero crescente di benpensanti, sarebbe legittimata nel suo disegno di esautorazione degli istituti democratici se i problemi posti sul tappeto della grande politica avessero una soluzione univoca. Centralismo o autonomie? Protezione dell'economia nazionale o globalizzazione? Apertura o chiusura delle frontiere? Rimanere in Europa o uscirne? Più Stato e meno Stato? Ma si può davvero pensare che per ciascuno di questi dilemmi si diano ricette infallibili, valide in tutti i tempi e in tutti i luoghi? Se alla maggioranza degli Inglesi l'Europa sta stretta e opta per la brexit, fiat voluntas sua: vuol dire che se i sudditi di S. M. Britannica domani staranno ancora peggio sarà per colpa loro e ne subiranno le conseguenze.
Incompatibile con la democrazia vera, quella che non vuol porsi al servizio di una buona causa ma solo di se stessa, è la pretesa che certe materie
debbano tenersi al di fuori dei ludi cartacei e che debba buttarsi nella pattumiera il principio che è più dignitoso per l'essere umano agire male liberamente che essere costretto a obbedire a buone leggi decise dall'alto.
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