Fiamma Nirenstein
Le disobbedienti di Elisabetta Rasy (Mondadori, pagg. 264, euro 20) è una galleria di ritratti, ma anche un testo di storia dell'arte, un manifesto femminista e una pensosa riflessione per cui la chiave della riscossa femminile è troppo vasta perché la si possa vedere come una storia politica. Il «femminile», sembra suggerire la Rasy, esprime qualcosa di poliedrico, misterioso, inventivo. In una parola, di artistico.
Il coraggio conduce la Rasy a esplorare le vite di sei pittrici che hanno fatto della loro ispirazione un dono all'umanità e in particolare alle donne: l'autrice percorre così i secoli e le latitudini, le più svariate questioni sociali, le correnti e le innovazioni artistiche fondamentali. E racconta la vittoria storica di sei donne contro tutto e tutti, in epoche diverse. Si parte con l'ispirazione caravaggesca di Artemisia Gentileschi, nata nel 1593, per giungere all'icona ferocemente multicolore di Frida Kahlo, nata nel 1907. E nel mezzo incontriamo, molto da vicino, Élisabeth-Louise Vigée Le Brun, nel 1778 ritrattista ufficiale della viziata quanto disgraziata regina Maria Antonietta, con lei immersa nei godimenti e nelle bizzarrie di palazzo fino all'esilio e alla lotta per la sopravvivenza; e poi Berthe Morisot, che ha condiviso lo scandalo e la gloria dell'impressionismo; e Suzanne Valadon, forse fra tutte la più palesemente riscattata dalla sua ispirazione, da prostituta miserable fino alle vette del denaro e della genialità espressiva, fra i pennelli e l'amore per un uomo che aveva la metà dei suoi anni; e Charlotte Salomon, travolta dalla Shoah all'età di 26 anni, dopo aver lasciato un'eroica testimonianza di vitalità artistica, copiosa e frenetica nei giorni che precedono la deportazione.
Le donne «disobbedienti» vinsero molte battaglie. Ma il libro di Elisabetta Rasy non ha nulla di trionfalistico: semplicemente, proprio come i ritratti femminili delle sue pittrici, mostra le meraviglie del femminile poliedrico, infaticabile, creativo, come Rasy ha fatto in passato dedicandosi alle scrittrici. Ora, tornando alla sua passione giovanile (è laureata in Storia dell'arte) non soltanto indica al lettore le opere delle sue prescelte, ma lo conduce in una passeggiata nell'arte di varie epoche. In queste vite c'è un doppio registro. Da un lato la battaglia personale durissima contro la famiglia, gli uomini, padri o amanti, che comandano, sfruttano, insidiano e, dall'altro, la lotta comune per la sopravvivenza e per l'affermazione di nuovi percorsi artistici fino al successo, che spesso arride alle protagoniste dopo anni di sforzi e pericolose avventure.
Così Artemisia arriva all'affermazione completa della sua arte dopo accuse e maldicenze e dopo aver subìto la violenza sessuale. Ormai famosa, quando scrive a Napoli al mecenate che la deve aiutare, Antonio Ruffo, si dice consapevole del fatto che «il nome di donna fa stare in dubbio sinché non si è vista l'opera». Ma sa bene di valere, perciò osa affermare che «le opere saranno quelle che parleranno», per via di «questo talento che mi ha dato Dio». Berthe Morisot, la cui biografia percorre tutta la vicenda, meravigliosa e allora controversa, dell'affermazione dell'Impressionismo, è il più lampante esempio della declinazione dell'intera storia dell'arte al femminile. Édouard Manet, evidentemente già un po' innamorato, scrisse: «Le due sorelle Morisot sono affascinanti, peccato che non siano uomini... potrebbero però come donne, servire la causa della pittura sposando ciascuna un accademico e seminando discordia nel capo di quei rimbambiti». Ma Georges Bataille dirà che «senza Berthe Morisot... Manet non avrebbe forse fatto pittura impressionista». E non soltanto per la bellezza di Berthe che lo ispira e lo affascina e per il suo ruolo di modella che la trasforma in un'icona misteriosa, virginale e insieme sexy, ma anche grazie alla sua pittura. Dopo aver esposto al Salon, sfida ogni convenzione critica tradizionale unendosi nel 1873 alla nuova «Società Anonima Cooperativa di Pittori, Scultori, Incisori e Litografi» in cui troveremo anche Edgar Degas, Camille Pisarro, Alfred Sisley, Pierre Auguste Renoir. Berthe è l'unica donna. La Rasy spiega che essa condivide con i suoi compagni e con altri grandi nomi dell'epoca «un'idea diversa di realismo, affidata alla vibrazione del pennello sulla tela e al gioco dei colori che non devono più imitare ma interpretare le immagini del mondo circostante e rendere conto di una nuova sensibilità dell'esistenza». È una bella descrizione della nuova rivoluzione pittorica, ed è interessante vederla attraverso gli occhi dell'unica pittrice donna che fece ufficialmente parte del gruppo.
Ci siamo soffermati su Berthe perché sia nella lunga teoria dei suoi amori più o meno carnali, felici e infelici, sia nel suo recepire dall'esperienza del mondo pittorico e intellettuale il senso stesso di un'epoca, si riassume il senso del percorso di Elisabetta Rasy. Inoltre, in lei si individua un altro tratto comune a tutte e sei le storie: le donne sanno dipingere la psiche femminile in modo totalmente diverso e sorprendente, rispetto a qualsiasi ottimo pittore, e l'immagine interiore della donna che trasmettono è indispensabile al progredire non solo della loro vita, della loro professionalità, ma anche della definizione moderna della psiche femminile che conduce al riscatto dalle ideologie del passato. Così Berthe, spiega la Rasy, dipinge donne che «portano le maschere della femminilità, ma... sono molto diverse dalle ballerine di Degas... dalle immagini cupe che Monet fa di sua moglie Camille e da quelle aggressive che Cézanne fa di sua moglie Hortense». Sono invece «un diario femminile nel quale il colore e il disegno sono il medio espressivo».
E c'è tristezza, ma anche amore, fierezza, determinazione, concentrazione, capacità, vita. Così per tutte e sei, unite da un entusiasmo che la Rasy esprime in una scrittura lieve e gioiosa, familiare e gentile.Vuole bene alle sue sei ragazze, e si sente.
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