Alla giovane Nina Berberova che lo ascoltò in teatro Aleksandr Blok apparve come era nelle fotografie, i folti capelli che ne incorniciavano il viso come un'aureola, eppure diverso: «Scorgevo sul suo volto una certa malinconia che non vidi mai più e non potei scordare. C'era sul suo viso qualcosa di funereo e si potrebbe affermare che era comparsa proprio in quegli anni per non abbandonarlo mai più».
Era il 1915, la Prima guerra mondiale era scoppiata ormai da un anno e nella sala dell'Esercito e della Marina, sul Litejnyj di Pietroburgo, la serata di beneficenza aveva per titolo «I poeti ai valorosi soldati». C'erano canzoni, atti unici, balletti, improvvisazioni comiche e i poeti, Sologub, Kurmin, la Achmatova, Blok, appunto, apparivano solo dopo l'intervallo del primo atto. Non recitavano le loro poesie, quella era roba buona per gli attori, ma le porgevano al pubblico come fossero una cantilena, uno stile che era stato proprio di Puskin più di mezzo secolo prima e che da allora non era mai mutato. Puskin rappresentava il Rinascimento russo, così come in quel primo Novecento Blok ne era il romanticismo, «la bellezza legata alla disperazione» scriverà la Berberova nelle sue memorie. Sul lato sinistro del palco, le mani in tasca, la voce di Blok riempiva la sala: «Per un deserto prato paludoso/ voliamo. Noi soli./ Come carte laggiù a semicerchio/ si sparpagliano i fuochi».
Blok aveva trentacinque anni, era il faro letterario del movimento simbolista, nutriva verso il suo mondo, la cosiddetta cultura umanistica borghese, odio e disgusto. «Non potrò accettare mai nulla della vita attuale - aveva scritto anni prima - mai potrò sottomettermi a essa. Non sento che repulsione per il suo ordine mostruoso. Nulla può più cambiare: nessuna rivoluzione lo cambierà». Era tormentato e sincero Blok, e quando infine la Rivoluzione arrivò, insieme con la disintegrazione dell'intero Paese, si illuse non tanto sul cambiamento politico che essa portava con sé, ma sulla possibilità di una trasformazione spirituale. «Nel gennaio del 1918, mi abbandonai per l'ultima volta ciecamente agli elementi. Composi quei versi sull'onda stessa degli elementi: mentre lavoravo sentii per diversi giorni, proprio fisicamente, con le mie orecchie, un grande rombo, un continuo rumore (probabilmente il rumore del vecchio mondo che crollava). Perciò quelli che vedono in essi un poema politico sono o del tutto sordi all'arte e immersi fino agli occhi nel pantano politico, oppure in preda a una grande rabbia».
I versi a cui alludeva Blok sono quelli che compongono I dodici e che ora Neri Pozza ripropone, come ideale appendice poetica, nel volumetto che ha per titolo Gli ultimi giorni del potere imperiale (pagg. 190 pagine, 14 euro; traduzione e cura di Igor Sibaldi). Per capire cosa stesse succedendo, Blok, allora soldato semplice in Bielorussia, si era fatto trasferire nella capitale con la qualifica di redattore-capo delle registrazioni stenografiche della Commissione incaricata di investigare «sulle attività illegali degli ex ministri, dirigenti, amministratori e alti funzionari» del potere imperiale appena collassato. Com'era stato possibile che fosse venuto giù tutto, lo Zar e l'impero, al punto tale che nessun membro dei Romanov aveva accettato di far da reggente a Alexsej, il figlio primogenito di Nicola II? Che cosa restava di un potere ventennale, e che però affondava le sue radici nella storia della nazione russa, della nullità del suo principale esponente, di quelli che giustamente Sibaldi, nella sua imprescindibile introduzione, definisce «gli isterismi dell'imperatrice, il cinismo dei dignitari, la corruzione che nessuno aveva osato fermare»? Più Blok assisteva agli interrogatori, più si convinceva che bisognava ascoltare «con tutto il corpo, con tutto il cuore, con tutta la coscienza» la Rivoluzione.
In quest'ottica, Gli ultimi giorni del potere imperiale è la perfetta radiografia di un disastro annunciato e nulla la rende più evidente dello sfogo di Igor Gulkov, il più lucido dei deputati di opposizione della Duma: «Se lo Stato maggiore tedesco avesse potuto dirigere a suo piacimento la nostra nazione e il nostro esercito, non sarebbe riuscito a far nulla di più di quanto ha fatto il potere esecutivo russo». Nella medesima ottica, però, I dodici, ovvero il poema mistico in cui una pattuglia di guardie rosse, più brutale che militare, si fa strada nella città e davanti a loro c'è «Il Cristo Gesù/ con una bianca coroncina di rose», era come l'abbandonarsi a una forza primigenia, alla natura in quanto tale, inarrestabile nel suo percorso e in cui la spiritualità avrebbe dovuto non mutarne la rotta, ma dare a essa un senso.
Mentre Blok scriveva, la storia aveva intanto preso a correre e gli ultimi mesi di quel governo provvisorio subentrato alla dinastia dei Romanov vedevano un susseguirsi di coalizioni, cospirazioni militari e cospirazioni politiche. Nel luglio del 1918 un tentativo di colpo di Stato a opera dei bolscevichi di Lenin, rientrato dall'esilio su un vagone ferroviario tedesco, fallì e trasformò il capo del Governo Kerenskij nell'improvvisato dittatore di una nazione sempre più allo sbando.
In autunno, infine, la cosiddetta Rivoluzione d'ottobre, secondo il calendario russo giuliano, vide il successo del putsch organizzato e guidato da Trockij. Kerenskij fuggì in abiti femminili dal Palazzo del Governo, l'intero edificio statale si sbriciolò, la giustizia sommaria si impadronì delle strade e, tempo due mesi, la Ceka, la nuova polizia politica, instaurò la pratica degli arresti e delle esecuzioni sommarie, l'epiteto di «nemico del popolo» fece da cornice giuridica al diritto di assassinare.
Blok si ritrovò solo, con il suo entusiasmo rivoluzionario svanito, così come la sua vena poetica. Nei due anni successivi alla Rivoluzione d'ottobre tacque, mentre la sua delusione cresceva e la sua salute peggiorava. Già nel 1919 la Ceka gli aveva fatto assaggiare il carcere ed era finito in una cella comune, piena di prigionieri politici. Fino all'alba, monarchici, socialisti rivoluzionari, menscevichi avevano discusso su quello che sarebbe stato il futuro della Russia. Blok aveva ascoltato in silenzio: «È tutto interessante e appassionante - disse alla fine -. Ma quale sarà nel vostro futuro il posto dell'artista e del suo mestiere randagio?». Era un interrogativo senza una risposta.
Nel febbraio del 1921, in occasione dell'anniversario della morte di Puskin, fece la sua ultima comparsa in pubblico e la fece con un discorso memorabile dove parlava della «missione del poeta» e dove si rifaceva al celebre verso puskiniano «Non c'è felicità nel mondo se non c'è pace e libertà». Di quel discorso, vale la pena riportare il finale: «Il poeta ne ha bisogno per restituire armonia. Ma ora mancano anche la pace e la libertà. Non la pace esterna, ma quella creativa. Non la libertà bambinesca, la libertà di essere liberali, ma la libertà di creazione, la libertà segreta. E il poeta muore perché non può più respirare: la vita ha perduto per lui il suo significato». Era il suo testamento. Morì di lì a pochi mesi e non è esagerato dire che fu il nuovo regime ad assassinarlo. Gorkij tempestò Lenin di telegrammi: «Salvatelo. Ha lo scorbuto e l'esaurimento nervoso. Lasciatelo andare in Finlandia a curarsi. Qui morirà!».
Non ebbe riposta, Blok non ebbe il visto e non ci fu bisogno di fucilarlo, fu la Rivoluzione, più che la natura a fare il suo corso. «Tutti i suoni sono cessati, non c'è più alcun suono»Era la musica della vita a essere sparita.
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