Ecco le idee ghigliottinate dalla rivoluzione giacobina

Da De Maistre a Burke, un saggio ripercorre le opere degli autori che condannarono la presa della Bastiglia

Ecco le idee ghigliottinate dalla rivoluzione giacobina

Nella rappresentazione postuma del 1789 e di tutti i fenomeni ideologici e politici ad esso legati si è prodotta una linea analitica inattendibile perché, sin da subito, combinata ad una manipolazione culturale e ad una distorsione storiografica senza pari. In un simile trambusto, astutamente alimentato, finirono anche le insorgenze anti-giacobine che, almeno nella prima fase, rappresentarono sul piano pratico la più arcigna difesa dei valori della tradizione e il primo fronte di opposizione alla mitologia rivoluzionaria che, oramai, si riverberava su un piano assoluto e universale. Contro quel mondo che mai accettò i dettami della Rivoluzione non poteva che scagliarsi, e in tutta la sua virulenza, la civilizzazione illuminista, scortata in taluni casi anche da azioni militari risolutrici, come nel caso della Vandea. Una campagna mistificatoria che simultaneamente produceva la negazione sistematica del fronte controrivoluzionario e la celebrazione agiografica delle tesi rivoluzionarie.

Uno scontro a tappe forzate all'interno delle quali ogni interpretazione doveva essere ricompresa in canoni prestabiliti. Clemenceau parlò di «blocco inscindibile», cioè di una rivoluzione «da accettare o respingere in blocco». Nel tempo si sostituì la teoria di «più rivoluzioni consecutive»; vale a dire, di un'età dell'oro corrispondente al 1789, a fronte di periodi come quelli del Terrore, da intendersi come naturali incidenti di percorso. Tragitto teorico molto battuto grazie al quale si collocarono gli episodi sanguinari e le fasi più cruente al di fuori della originaria matrice rivoluzionaria.

Fu Burke ad intuirne l'astuzia quando, nelle Riflessioni, focalizzò l'attenzione su questa divisione strumentale tra una rivoluzione «buona» e una «cattiva» e sul fatto che non vi potessero essere dubbi su una continuità logica tra il 1789 e i decenni successivi. Se ad alimentare questo fronte si è utilizzata la distorsione storiografica, per la controrivoluzione si è adottata la menzogna e l'irrisione. Eppure non fu un fermento momentaneo, tanto meno un'azione di pochi scellerati con motivazioni indistinte. A sostenerla un grumo esaltante e fascinoso di pensatori cattolici che decisero di opporvisi, denunciando le aporie rivoluzionarie. Una scuola di pensiero che ha attraversato gli ultimi due secoli della storia d'Occidente e che, per forza di cose, mai poteva confinarsi nel dozzinale campo di una contrapposta teoria sociale e politica perché, come spiegò de Maistre, «la controrivoluzione non è una rivoluzione contraria, ma è il contrario della rivoluzione».

Se la rivoluzione non è infatti assimilabile ad una ordinaria rivolta, anche la controrivoluzione non va intesa come una formulazione ribellistica legata al contingente e, in qualche modo, al folklore. E non si definisce ed esaurisce nella contrapposizione perché non è riducibile ad un tempo. Adottando il criterio della «trasmissibilità» che gli consente di perpetuare nel secoli valori di riferimento e quello della «selettività» che gli permette di defalcare dal presente i deficit del passato, «va interpretata e vissuta - come nota De Benoist - innanzitutto come luogo a-storico dove essa non è solo il passato, ma si pone al di là del tempo».

L'ultimo lavoro di Diego Benedetto Panetta, Il pensiero controrivoluzionario (Giubilei-Regnani, pagg. 275, euro 20), attinge esclusivamente da questo versante metafisico. Se Augusto Del Noce parlò di «Rivoluzione come parola chiave della nostra epoca» in quanto non elemento di ordine fisico ma modello metastorico che investe il piano spirituale, allora Panetta, da contraltare, dedica intense pagine al quadro teorico e ripercorre i punti nevralgici del pensiero controrivoluzionario. Quindi incrocia Joseph De Maistre, Juan Donoso Cortés, Antonio Capece Minutolo, Monaldo Leopardi, Gustave Thibon, Francisco Elìas de Tejada e Plinio Corrêa de Oliveira, non disdegnando in apertura del volume un capitolo su Edmund Burke (che, però, non è da considerarsi un controrivoluzionario) e, in chiusura, uno sull'indefinibile Nicolás Gómez Dávila, che fu controrivoluzionario, forse reazionario, magari tradizionalista o più semplicemente un conservatore.

Autori consapevoli di una modernità che abbandonando le proprie radici ha assunto forma e sostanza del tutto divergente da quella propugnata per secoli dalla civiltà cristiana. Eppure... ed è qui l'affondo di Panetta, se le generazioni vengono ancora educate all'inesistenza di una verità cui fare riferimento e di una autorità trascendente - in una condizione che Heidegger condensò poi negli stati d'animo del disorientamento, dello sradicamento e della spaesatezza - non tutto può essere ascritto al 1789.

La responsabilità dello stato attuale delle cose e del processo di scristianizzazione in atto sarebbe «da ascrivere anche al cedimento di coloro i quali avrebbero dovuto fungere da Katechon; vale a dire, a buona parte delle gerarchie ecclesiastiche, le quali, hanno anticipato o addirittura avallano tale opera».

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