Dino Cofrancesco
S e si dà un rapido sguardo agli incontri di Palazzo Ducale - la più importante Fondazione culturale genovese, come lasciano presumere i bilanci e i generosi sostegni ricevuti da Comune e Regione - ci si ritrova dinanzi alla stessa compagnia di giro protagonista dei vari «festival» d'arte, di storia, di politica che in certe stagioni dell'anno si svolgono in varie città storiche della penisola. La political culture è quella dei compianti don Andrea Gallo e Umberto Eco, di Gustavo Zagrebelsky, di Micromega, delle terze pagine di Repubblica, del Fatto, del Manifesto, dello stesso Corriere della Sera, con qualche spruzzata di pluralismo. Certo non mancano studiosi di grande prestigio - da Salvatore Settis ad Aldo Schiavone - accanto ad altri, però, che, forse, come titolo hanno soprattutto la tessera di Sel o la prossimità alla sinistra Pd. Ed inoltre i soliti noti, per non venir meno al sacro dovere della testimonianza, rivelano competenze insospettate: chi sapeva che Remo Bodei, Carlo Freccero, Nicla Vassallo fossero esperti anche di filosofia greca e di Platone in particolare?
A scanso di fraintendimenti, non intendo certo negare il diritto degli assessori locali e degli organizzatori di dibattiti culturali di loro fiducia a invitare chicchessia, senza troppi scrupoli pluralistici. Ci sarebbe da chiedersi, semmai, se, indipendentemente dal colore delle Giunte, non si debba esigere che il denaro di tutti - anche di coloro che hanno votato per i partiti all'opposizione - venga amministrato in maniera equa e «istituzionale»: assicurando, ad esempio, che, se si parla di storia contemporanea, si adotti almeno il criterio delle due campane, che è il requisito minimo di un'informazione culturale che si rispetti. E comunque neppure di questo voglio parlare, perché è difficile fissare poi le misure condivise di pluralismo e, se al Festival torinese della democrazia vengono invitati anche un Giuseppe Bedeschi e qualche altro studioso di area liberale, non si può accusare con sicurezza il responsabile dell'evento mediatico di faziosità.
A rendermi perplesso, invece, è altro. Come mai, mi chiedo, i partiti di sinistra che si sobbarcano responsabilità di governo - ieri il Psi di Bettino Craxi, oggi il Pd di Matteo Renzi - presentano, al vertice, il volto rassicurante e riformista della socialdemocrazia e, spesso alla base - nei vari festival e attività di promozione culturale - la vecchia ideologia illiberale, antioccidentale, nemica irriducibile del mercato e di tutte le libertà che non si traducano in diritti sociali?
Al tempo di Craxi, si esaltò Pierre-Joseph Proudhon, il teorico del mercato socialista - ovvero di un ossimoro destinato ben presto a svanire nel dibattito «qual fumo in aere» - e si corteggiarono movimenti alla sinistra del Pci ancora più lontani di Lenin dai valori della «società aperta» (ricordo, persino, un tentativo di arruolare Dario Fo!). Al tempo di Renzi, la cultura sembra essere stata data in appalto all'opposizione di sinistra e ai suoi «gufi», secondo una vecchia e perdente logica democristiana: «A noi i consigli di amministrazione, a voi le case editrici!».
Sinceramente non riesco a trovare il senso dell'oggettiva svalutazione della cultura da parte di Renzi e della velleitaria strumentalizzazione dell'estremismo rosso da parte di Craxi. Lungi da me l'idea di un titolare del Minculpop, riformista o liberale, che da Palazzo Chigi telefoni ai responsabili dei vari convegni intimando di invitare Tizio piuttosto che Caio: in ogni caso, il ministro non sarebbe imparziale e poi sarebbe assurdo riproporre la rappresentanza proporzionale, sempre più spesso bandita dai sistemi elettorali, nelle istituzioni culturali, in modo da assegnare uno stand ad ogni posizione ideologica. L'unico modo per sfuggire al dilemma sarebbe quello di far pagare ogni sorta di manifestazione culturale, artistica, musicale solo a quanti apprezzano i prodotti in offerta, ma è prevedibile che le star della Repubblica delle Lettere imprecherebbero, a questo punto, contro il materialismo che tutto riduce al modello del mercato.
Mi domando, però, cui prodest? lo stile di governo in esame.
In particolare, quello di Renzi si spiega col romanesco «manco te vedo» - «chi se ne frega di quello che pensano Stefano Rodotà, Nadia Urbinati, Paolo Flores d'Arcais?» - o con il panem et circenses - fatto di comparsate televisive, di soggiorni in alberghi lussuosi, di cospicui gettoni di presenza - con cui distrarre dalla «feccia di Romolo» e tenersi buono un ceto, quello intellettuale, che in Italia ha sempre contato molto (troppo) e che, in certe occasioni - come nel 1948 - ci avrebbe assicurato quarant'anni di paradiso sovietico, se i suoi partiti di riferimento avessero vinto le elezioni?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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