Il film che racconta come i Beatles diventarono i Beatles

Esce a metà settembre il "documovie" di Ron Howard sull'epopea dei loro mega concerti

Il film che racconta come i Beatles diventarono i Beatles

Insomma ai registi da Oscar piace la musica. Forse sarà una moda. O probabilmente è solo nostalgia. Comunque anche a Ron Howard è venuta voglia di raccontare i propri giovanili eroi musicali, che poi sono gli eroi di almeno tre generazioni. Il primo è stato Oliver Stone con i Doors 25 anni fa. Poi è toccato a Scorsese, che ha scelto i Rolling Stones, ca va sans dire. Ora l'ex Richie Cunninghan racconta i suoi (nostri) happy days con i Beatles grazie a Eight days a week - The touring years, che esce in tutto in mondo (in Italia è distribuito da Lucky Red) in un periodo compreso tra il 15 al 21 settembre. Una capatina nelle sale che è un evento ma non metterà certo in pericolo i primi posti del botteghino. L'obiettivo, dopotutto, è quello di conquistare i «millenials», ossia quella voracissima fascia di pubblico adolescente che nelle sale di un cinema non entra manco morto ma sul web dimostra un interesse enorme per le icone pop rock del passato e, soprattutto, per quell'aura di creativa e forsennata utopia che le avvolgeva e ora drammaticamente manca quasi dappertutto.

Perciò con il beneplacito degli ultimi due Fab Four rimasti e delle vedove degli altri due (Yoko Ono e Olivia Harrison), Ron Howard ha raccontato in un docufilm come i Beatles sono diventati Beatles. Per farla breve, è un viaggio dettagliato dai primi concertini al Cavern di Liverpool fino a quel tardo pomeriggio del 29 agosto 1966 (ossia cinquant'anni fa esatti) al Candlestick Park di San Francisco quando suonarono per l'ultima volta dal vivo: «Sarà un tale sollievo non dover avere più a che fare con tutta questa follia» disse George Harrison riferendosi sostanzialmente alla «beatlemania». In Europa esplose quasi subito, con un'isteria collettiva che per la prima volta contagiò un continente. Negli States arrivò soprattutto dopo il febbraio 1965 e l'esibizione tv all'Ed Sullivan Show che registrò un record di ascolti superato poche altre volte.

«Mi interessa farli conoscere nel contesto in cui nasce il mito perché sono unici», ha detto Ron Howard più da tifoso che da regista.

Per capirci Eight days a week non è un film romanzato sulla più popolare band di tutti i tempi con toni agiografici e bla bla compiaciuti. È una sorta di reportage dal passato con video rari o inediti. Con i quattro beatle che recitano nel ruolo di loro stessi. E con alcune incursioni che danno la misura di quanto il fenomeno fosse trasversale e condiviso. Ad esempio, Whoopy Goldberg spiega che i Beatles «non erano bianchi, erano senza colore, davvero ragazzi come noi». O Sigourney Weaver, innamoratissima di John Lennon, viene isolata in una foto sotto il palco dei Beatles a New York dopo aver speso un pomeriggio «a scegliere il vestito per andare al concerto». Già, i concerti.

Quei Beatles furono praticamente i primi a suonare negli stadi con produzioni e tecnologia chiaramente inadeguati.

Appena iniziò la prima canzone del loro concerto allo Shea Stadium di New York si capì subito che l'amplificazione era drammatica, se non altro perché fino a quel momento era servita soltanto ad annunciare il punteggio delle partite di baseball e non per «dominare» decine di migliaia di beatlesmaniaci.

Però loro, i quattro, erano al di fuori di questa chiassosa euforia: si stavano ripiegando su loro stessi. Anche se Paul McCartney qui spiega che «tutte le nostre decisioni erano condivise da ogni membro della band», l'armonia non era più quella di prima e, dopo quell'ultimo tour, non si ritrovano mai più tutti insieme sullo stesso palco. Lo fecero ancora in studio, agli Abbey Road di Londra, oppure qui e là, e sempre più malvolentieri.

E allora Eight days a week è una foto dei Beatles quando erano Beatles a 360 gradi, ancora pieni di quella geniale follia che anche oggi, mezzo secolo dopo, riesce a trascinare ragazzi che potrebbero essere i loro nipoti (e pure bisnipoti).

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