Un vero scrittore è un uomo che conosce delle cose e che le conosce troppo per poterne parlare, per cui scrive. Hemingway è pienamente un uomo di questo genere. Conosce le cose che ha mosso, i posti in cui è stato e le persone che ha frequentato. Null'altro. Non compone il suo universo se non con questo.
Ma quei luoghi, quelle cose, quelle creature, le conosce bene; le abbraccia con la conoscenza più sicura e umana, fatta innanzitutto dell'esercizio dei sensi e a seguire di quella sensibilità e di quella ragione che si formano con l'equilibrio reciproco dei cinque sensi. Il suo universo è dunque un universo solido. È un universo solido che si tocca con mano. Senza prolungamenti intellettuali bensì col potere di suggestione degli oggetti, degli oggetti artistici.
Hemingway conosce gli indiani d'America, i pugili, i fantini, gli italiani della guerra, gli americani di Parigi, qualche donna, qualche scrittore.
Non è molto, mi direte voi. Ebbene, leggetelo, leggete Addio alle armi. E vedrete se non è qualcosa una manciata di italiani e un'infermiera scozzese, quando la mano di un Hemingway ci si abbatte sopra.
Ho incontrato Hemingway, una volta sola: cenavamo insieme in casa di amici comuni in una casa gialla sul bordo della Senna, dove sono passati tanti americani. È molto robusto. Mi è piaciuto molto. Non avevo per nulla voglia di chiacchierare con lui, avrei preferito esser suo amico da dieci anni e non aver bisogno di dire delle sciocchezze per stabilire un contatto. È un tipo con cui bisogna cacciare o pescare. Immaginate un Maupassant che non sia stato rinchiuso in un ministero o a Parigi e che, molto giovane, abbia preso il largo con la sua barca. Un Maupassant che abbia visto dei paesi mezzi selvaggi, che sia stato in guerra, nella miseria, in mezzo alla gente. Gli stessi doni di Maupassant: i doni dei sensi. Una potenza inesauribile di ricettività, di registrazione. Un uomo che è a un tempo una macchina fotografica e un fonografo, ma che non è per questo meno uomo. Un uomo in carne e ossa e per il quale gli altri sono prima di tutto in carne e ossa, dunque con dei nervi, delle lacrime, delle risate, dei desideri, della paura e la cosa che riassume tutto ciò è la loro voce. Ammirate quest'affollamento di dialoghi nei racconti e nei romanzi di Hemingway. Poche descrizioni, poco racconto; ma vi buscate in pieno volto l'atmosfera di un luogo o di una persona attraverso questo o quel dialogo carico d'effluvi tanto visivi o gustativi quanto sonori. C'è poi un'altra cosa nel dialogo di Hemingway: c'è soprattutto il demone di Hemingway. Non dirò che questo demone sia quello dell'umorismo o dell'ironia quanto quello della salute; ciò che vi tocca, è il tono stesso di una vita, di una salute, è il temperamento di un uomo gagliardo. Spalle da facchino, anima da cane da caccia, perdutamente sensibile a tutte le fragranze vive, insegue ogni preda con un desiderio tenero e implacabile. Ho spesso dubitato che gli americani fossero giovani; credo che lo siano, quanto leggo Hemingway (e certi altri).
Si sente d'improvviso una forza che è in contatto con la terra, con la natura e che ha la taglia per sopportare il pesante apparato della società, dell'industria, il quale passa attraverso la vecchia Europa di pietra e l'America di ferro come un gioioso rinoceronte che si è fatto il bagno la mattina presto e si scaglia sul suo primo pasto.
Ciò che mi lega a uno Sherwood Anderson, a un Hemingway, a un Dos Passos, è il fatto che conoscono le grandi solitudini inabitate del loro continente nel quale sono immerse le città mal chiuse, e che sanno farvi ritorno. Portano avanti così una tradizione possente nelle razze nordiche, quella del rapporto solitario con la natura tradizione di Walt Whitman, di Thoreau, di Melville tradizione di Hardy, Kipling, Meredith, Keats e Shelley tradizione di Hamsun tradizione di Tolstoj e di Tourgenev. Questa giovinezza o questa salute non escludono il pessimismo. C'è del pessimismo in Hemingway, un maledetto pessimismo. Mi ricordo una vecchia signora americana che mi diceva: «Perché le donne di lettere europee sono così tristi?». Le risposi: «Ma vi siete guardati?» Pensavo a Whitman, a Thoreau, a Poe, ecc. Il pessimismo è apannaggio della forza e della giovinezza. Rileggetevi la Nascita della tragedia di Nietzsche: più l'uomo è forte, più entra nella vita; e quando entra nel cuore della vita, non può trovarvi che una visione tragica.
La vita di questi giovani scrittori è tragica. Sono degli errabondi; vagano dall'America all'Europa e all'Asia, cercando la felicità ovunque e non trovandola da nessuna parte. Portano sulle spalle il torvo destino della loro civilizzazione, che a un tempo li spaventa e li seduce. Vogliono essere americani, e lo sono, eppure hanno ancora un dolente bisogno dell'Europa. Vengono a lavorare in Europa e poi tornano a vivere in America. Si sbronzano, fanno il bagno nel mare, s'incolleriscono, strappano delle donne alla vita imbecille delle grandi città americane, se ne vanno al diavolo, ritornano, scrivono, si disperano e allo stesso tempo realizzano delle opere che provano che decisamente l'America esiste, che gli americani hanno finito di costruirsi la loro casa. Già si siedono e cominciano a cantare.
I giovani scrittori hanno un pubblico, hanno successo, gli si riempiono le tasche di dollari (per lo meno i romanzieri, naturalmente non i poeti), ma non per questo sono meno misconosciuti, e devono battersi con quel pubblico, cosa d'altronde sana ed eccitante. Creano un'arte robusta, diretta, inquieta, piena di ritmi nascenti, già sicuri. Abbiamo bisogno di loro. Il pubblico europeo s'ingozza di traduzioni dall'americano. Ingurgitiamo alla rinfusa il buono e il cattivo; ma in tutte le cose il buono non viene mai senza il cattivo. E in ogni caso, da laggiù ci giungono parecchie cose buone. Anche qui diventiamo fino a un certo punto dei debitori.
Con gli americani scambiamo delle forme contro della vita bruta.
Abbiamo bisogno di quegli effluvi di salute che ci mandano per ravvivare le nostre forme; ma hanno ancora bisogno delle nostre forme per contenere e dirigere i loro slanci. Hemingway è esperto di questo felice commercio. Barbaro inquieto, sottile, fragile come tutti i barbari barbaro felice, che sa preservare la sua forza e lasciare Roma, una volta fatto bottino.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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