Con la scomparsa di Gian Luigi Rondi, il 94enne decano dei critici cinematografici morto mercoledì nella sua casa romana, se ne va anche quel modo raro di rapportarsi al cinema, senza pose modaiole e false competenze, che ha accompagnato questo protagonista della Settima Arte lungo settant'anni di carriera. Insieme al collega Morando Morandini, scomparso l'anno scorso, egli ha rappresentato un'epoca irripetibile. La lunga sciarpa bianca sempre al collo, anche d'estate; i modi affabili e curiali da grande esperto era presidente a vita dell'Accademia del Cinema Italiano e dell'Ente David di Donatello -, un garbo naturale che si traduceva nel lento dire della sua vocina, ha lavorato fino all'ultimo giorno. «Mi alzo alle sei, scrivo fino alle nove, passo la mattina ai David. Di pomeriggio vado all'Auditorium per gestire il festival del film di Roma. La sera vedo i film per scriverne la mattina dopo. Vita mondana non ne faccio, la riduco al minimo», così descriveva la sua ferialità, prima che si dimettesse dalla Festa di Roma, nel 2012. Non senza dispiacere: all'Auditorium, troppe lotte intestine da fronteggiare.
Cavaliere di Gran Croce, Grande Ufficiale della Repubblica Italiana e Legion d'onore di Francia, Rondi, nato a Tirano, in Valtellina, il 10 dicembre 1921, aveva collezionato un ragguardevole numero di onorificenze, tanto da meritarsi, nei Cinquanta, il soprannome sfottitorio di «Don Medaglietta». Presidente della Biennale di Venezia dal 1993 al 1997 e Presidente della Fondazione Cinema per Roma, dal 2008 al 2012, ha attraversato le stanze del potere con felpato passo democristiano, senza mai scomporsi. Neanche quando, nel 1971, da commissario della Mostra di Venezia dovette essere scortato dalla Digos. E ci fu chi chiese la sua testa perché aveva inserito alla Mostra il film I diavoli, preferenza discutibile quanto quella di escludere dalla selezione Velluto blu di David Lynch, perché, a suo parere, nel film Isabella Rossellini appariva discinta e lui teneva a preservare la buona immagine della figlia di Ingrid Bergman, sua amica personale. Bacchettoneria d'altri tempi, ma che rende bene il carattere dell'uomo. Un uomo complesso e un po' doppio, capace di cattolicizzare autori profondamente luterani come Luis Buñuel e Ingmar Bergman, dei quali consegnò, in recensioni e dialoghi ritoccati, un'immagine distorta e romano-centrica. Il suo vero trionfo, però, fu la realizzazione del compromesso storico, in ambito cinematografico, quando con Carlo Lizzani, alla guida della Mostra di Venezia dal '79 all'83, si alternò sulla plancia di comando, al Lido, dall'84 all'87, nel segno d'una collaborazione amichevole e fattiva. Lizzani, l'uomo del disciolto Pci che doveva educare gli artisti, e Rondi, il partigiano, il cattolico, l'uomo della Realpolitik vicino agli ambienti vaticani, cooperarono per il bene della Mostra. «Sono abituato a fare. L'inerzia mi annoia, mi avvilisce», diceva preoccupandosi che, a Venezia, le linee telefoniche funzionassero e che le camere d'albergo venissero assegnate con criterio.
Nel dopoguerra, quando c'era da ricostruire il cinema e il teatro nazionali, egli era un giovane critico che frequentava soprattutto gli attori dell'accademia d'Arte Drammatica, pranzando in scalcinate trattoriole romane insieme agli allora magrissimi Nino Manfredi, Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni. Dai loro racconti imparava l'approccio analitico al lavoro artistico, che l'attirava anche sul versante creativo. Dagli anni Cinquanta, infatti, Rondi prese a collaborare con i registi Joseph L. Mankiewicz e René Clair, firmando sceneggiature, regie e documentari interessanti, come quelli realizzati per la tv, negli anni Sessanta, e dedicati a Luchino Visconti, suo parente alla lontana, a Vittorio de Sica e a Roberto Rossellini. La sua prima recensione, datata 1947, viene così raccontata nell'interessante libro di Simone Casavecchia Rondi visto da vicino (Edizioni Sabinae): «Nel 1947 i film americani iniziavano ad affacciarsi di nuovo sui nostri schermi. Vidi Maria Antonietta, di cui si sapeva solo che la protagonista, Norma Shearer, era stata premiata a una Mostra di Venezia.
Non ho più riletto quella recensione, anche se le conservo tutte raccolte in un volume, ma credo di ricordare rilievi solo contenutistici, allora non avevo imparato a occuparmi soprattutto della forma. Chiedo scusa al mestiere di critico». Un'umiltà d'altri tempi, che lo faceva sedere sempre in fondo alla sala.
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