Da Gobetti a Croce e a Guareschi i veri maestri del (nostro) pensiero

Nel volume di Pier Franco Quaglieni una galleria di personaggi del '900 che hanno «fatto storia». Con idee controcorrente e qualche scivolone...

Da Gobetti a Croce e a Guareschi i veri maestri del (nostro) pensiero

Grand'Italia (Ed. Golem), la nuova galleria di italiani illustri allestita da Pier Franco Quaglieni - fondatore e animatore del Centro Pannunzio di Torino - è un degno seguito di Figure dell'Italia civile (Ed. Golem) uscito lo scorso anno. Anche qui 31 profili la cui metà è costituita da piemontesi, a testimonianza del grande e giustificato amore dell'autore per la sua regione.

Non pochi capitoli non erano certo di facile composizione per uno studioso di formazione liberale come Quaglieni. Emblematico in tal senso, quello su Piero Gobetti, l'eretico tradito dalle vulgate. L'appropriazione indebita fattane dalle sinistre (da Augusto Monti allo stesso Palmiro Togliatti) come la negazione del suo liberalismo che si ritrova in saggi esemplari di Giuseppe Bedeschi, vengono entrambe sottoposte a critica circostanziata. «Gran parte degli errori compiuti» nella valutazione di uomini ed eventi storici, a cominciare dalla rivoluzione sovietica «non sono tanto di Gobetti ma dei gobettiani delle diverse generazioni da Carlo Levi a Franco Antonicelli e tanti altri decisamente minori, che sono confluiti nel Pci come se quel partito fosse il punto di arrivo del percorso gobettiano». Va riconosciuto, però, che al giovane Gobetti, indubbiamente la più alta coscienza morale del primo antifascismo, risale uno stile di pensiero disastroso e costante nell'ideologia italiana, dal primo dopoguerra a oggi, passando per il '68: la declinazione in senso attivistico del conflittualismo liberale - vedi il tema einaudiano ma anche crociano della «bellezza della lotta» - che della celebre definizione di Luigi Einaudi, «l'impero della legge come condizione dell'anarchia degli spiriti», cancella la prima parte ovvero la verità che sulla tabula rasa delle istituzioni (e delle tradizioni) non si costruisce nessuna società libera. Un discorso analogo va fatto per Antonio Gramsci. «Appare fuor di dubbio - scrive non a torto Quaglieni - che tentare di continuare a vedere in Gramsci come faceva Alberto Asor Rosa nella sua storia della cultura italiana del Novecento, la figura centrale del secolo risulta sempre più difficile, se non impossibile». Rilevare, tuttavia, che il suo pensiero non si lasciò imprigionare, come mostrerebbe il suo dissenso con Stalin e con Togliatti, significa scambiare per liberale la critica dell'irrigidimento burocratico della rivoluzione tipica, in ogni tempo, dell'estremismo rivoluzionario - dagli «arrabbiati» del 1793 alle guardie rosse della Cina di Mao.

Quaglieni ha, non da oggi, il coraggio di andare controcorrente e se dichiara apertamente quali sono gli uomini di pensiero ai quali il Paese deve ancora oggi ispirarsi (Francesco Ruffini, Benedetto Croce, Adolfo Omodeo, Aldo Garosci, Carlo Antoni, Alessandro Passerin d'Entrèves, Giuseppe Galasso, Giovanni Sartori) non esita poi a rendere omaggio a figure scomode o controverse come Umberto II di Savoia, Giovannino Guareschi, Leonardo Sciascia, Giorgio Albertazzi, Enrico Martini Mauri, di cui mostra la forza morale e l'impegno civile, pur non nascondendosi talora limiti per lui vistosi. Della Fallaci, ad esempio, scrive che «il suo manicheismo ci impedisce di comprendere a pieno la realtà del secondo millennio» e che, portata dal suo «furore antislamico» a definirsi un'«atea cristiana», non credeva nel dialogo interreligioso proprio come Benedetto XVI le cui posizioni Francesco I avrebbe superato.

Ricordare tutti i personaggio evocati da Quaglieni non è certo possibile, mi sia consentito, però, di avanzare qualche riserva almeno su due di loro: Umberto Eco e Stefano Rodotà. Si tratta indubbiamente di due maîtres-à-penser che hanno «fatto storia» ma davvero il primo dev'essere ricordato soprattutto come il professore che bacchettava i «babbei» di Internet? Non fu, forse, un grande diseducatore di massa che con la sua teoria del «fascismo eterno» contribuì a tenere sempre verde la guerra civile tra gli Italiani? Esperto di comunicazione, Eco non esitò a firmare il manifesto contro il «torturatore» Luigi Calabresi senza porsi minimamente il problema dell'attendibilità delle notizie fornite da giornali e da militanti prevenuti. E che dire di Stefano Rodotà - di cui Quaglieni pure ricorda la faziosità laicista? Davvero «con la sua morte l'Italia ha perso una mente molto lucida e vigile» perché «con le sue polemiche seppe tenere alta l'attenzione sui temi dei diritti civili, anche se in lui è prevalsa su tutto la vis polemica»? Ha ben meritato della patria chi lascia libri che possono contribuire alla formazione civica di un popolo ma chi potrebbe pensare che testi come l'Ur-Fascism (in italiano Il fascismo eterno) di Eco o l'Elogio del moralismo di Rodotà contribuiscano a una pacifica convivenza e al reciproco rispetto di tutti gli italiani?

Su un punto, però, il mio dissenso con Quaglieni diventa insanabile, quello riguardante il ritorno delle salme di Vittorio Emanuele III e di sua moglie in «un santuario periferico cuneese secondo modalità che non hanno accontentato nessun monarchico e hanno

suscitato la critica di molti repubblicani». A mio avviso, si è trattato, invece, di una soluzione - peraltro patrocinata dalla donna più colta, sensibile e intelligente di Casa Savoia, Maria Gabriella - felicissima e saggia.

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