Lo ricorda bene Peter Assman nel breve scritto presente nel catalogo della mostra Il viaggio in Italia di Goethe. Un omaggio a un Paese mai esistito al Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum di Innsbruckm (fino al 26 ottobre): lo scrittore-scienziato tedesco visitò l'Italia «con gli occhi dell'arte». Un «magnifico viaggio», come scrisse lo stesso Goethe, il cui scopo era conoscere «se stesso nel rapporto con gli oggetti». Ecco il motivo per cui va elogiata la mostra austriaca che raccoglie oltre cento pezzi, tra statue, dipinti, disegni, stampe, bozzetti, acquerelli (alcuni dei quali dello stesso Goethe, provenienti dalla Klassik Stiftung di Weimar, dall'Albertina e da altri musei austriaci e tedeschi), ma anche la serigrafia su cartone di Andy Warhol del 1982 (da Chemnitz).
Divisa per sezioni, l'esposizione ricorda anzitutto che la Weimar di allora, dove Goethe arrivò nel 1775 come precettore del duca Carlo Augusto, era il centro tedesco dell'italianità, introducendoci poi all'estetica del classicismo, ai temi del Laocoonte (molto belle alcune sanguigne di Johann Georg Dominikus Grasmair), all'Arcadia e ad alcune tappe del viaggio, scelte tra nord, centro e sud Italia. Il catalogo è bilingue (tedesco-italiano) e certamente ben fatto, ma fin troppo ricco di contributi (ben 15) e pretenzioso nella volontà di affrontare temi non propriamente necessari per apprezzare il viaggio goethiano.
Svoltosi tra il 1786 e il 1788 e narrato nell'Italienische Reise (pubblicato in Germania in tre parti tra il 1816 e il 1829), del viaggio in Italia goethiano vale la pena ricordare, al di là di idealizzazioni e mitizzazioni, anche errori e distrazioni. «Gaffes critiche ed estetiche», come le ha chiamate Italo Alighiero Chiusano, convivono infatti con osservazioni che sono vere opere d'arte, perché formulate secondo i criteri dettati dal suo genio, senza tenere conto dei gusti correnti.
Già a Verona iniziano le considerazioni critiche di Goethe sull'arte gotica e sull'arte cristiana in generale, laddove dice di preferire i defunti così come vennero immortalati dai pagani, perché, a differenza di quelli cristiani, «non giungono le mani, non guardano in cielo, ma sono, quaggiù, quello che erano e quello che sono». Arrivato a Padova con gli occhi ripieni delle architetture di Andrea Palladio, che definisce «un grande poeta», Goethe giudica la basilica del Santo un «edificio barbarico» e non fa alcune menzione né di Donatello, né del Giotto degli Scrovegni. È piuttosto l'Orto Botanico a ispirarlo, richiamandogli alla mente la sua vecchia idea, tra lo scientifico e il mistico, secondo la quale esisterebbe una Urpflanze, una pianta archetipa dalla quale deriverebbero tutte le metamorfosi vegetali.
Dopo aver trascorso due settimane a Venezia, senza aver provato alcuna emozione particolare rispetto all'arte di Tiziano, Carpaccio, Bellini, Lotto (qualche apprezzamento la riserva solo per Tintoretto), si reca appositamente a Cento, perché patria di Guercino, uno dei pittori cari al neoclassicisti, dunque anche a lui. Apprezzamento quindi, ma anche critica all'arte sacra cattolica (non dimentichiamo la sua formazione protestante), perché tutto in essa è «sempre anatomia, patibolo, scorticatoio, sempre sofferenze dell'eroe, mai azione, mai interesse attuale, sempre l'attesa di qualcosa di fantastico proveniente dall'esterno». Goethe non sopportava di trovarsi fronte «o malfattori o santi in estasi, o delinquenti o pazzi».
Considerazioni esclusivamente contenutistiche, quelle del tedesco, senza alcuna valutazione in merito ai valori espressivi, alla resa in bellezza. Salvo poi andare letteralmente in estasi a Bologna, di fronte alla Santa Cecilia di Raffaello.
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