"Dalla guerra in Israele alla vita di Gesù. Amo i film complessi"

L'attrice francese di origini libanesi, dopo il successo di "Fauda", è diretta da Malick

"Dalla guerra in Israele alla vita di Gesù. Amo i film complessi"

Esile come un fuscello, con un sorriso soave, ma determinata e sicura. Una forza che le deriva da quel miscuglio di popoli, religioni, culture che porta nel sangue. Laetitia Eido è l'attrice francese, di madre libanese, diventata famosa come protagonista di Fauda, la serie israeliana trasmessa da Netflix diventata un fenomeno internazionale: affronta la questione israelo-palestinese attraverso le operazioni sotto copertura degli agenti infiltrati nei territori occupati. In Italia Laetitia è stata ospite, insieme a registi e attori come Abel Ferrara e Marco Bocci, del Magna Grecia Film Festival, rassegna di opere prime in costante crescita che si è appena conclusa a Catanzaro, dove ha ricevuto il premio per le serie tv. Il sorriso le si spegne quando le si chiede dell'esplosione che ha devastato Beirut causando oltre 150 vittime. Nella capitale libanese vivono metà dei suoi parenti, del ramo della madre.

«La mia famiglia sta bene. Il mio primo pensiero va a tutti coloro che hanno perso parenti amici. Io sono francese e spero tanto che in questo momento il mio Paese, da sempre vicino al Libano, lo sostenga il più possibile».

Lei è nata vicino a Lione, suo padre è francese, sua madre libanese. In lei convivono 3 religioni: cristiana, musulmana, ebraica (da parte dei nonni). Come si cresce con queste eredità?

«Con grande libertà. I miei genitori non mi hanno imposto nulla. Anzi mi hanno insegnato a scegliere il meglio delle tre fedi e costruirmi una mia spiritualità. Io medito molto, ma non mi riconosco in nessun credo. La mia comunità è il mondo».

In Fauda lei interpreta la dottoressa Shirin El Abed, che, come lei, è metà francese e metà araba

«Sono stata io a volere così. Anzi, per accettare la parte, ho chiesto di cambiare il mio personaggio: nella sceneggiatura iniziale ero solo palestinese, ho preteso di essere metà palestinese e metà francese, in modo che non fosse un solo popolo a identificarsi in me. Questo perché volevo essere il simbolo del legame tra le due parti in conflitto. E perché volevo portare un messaggio di speranza, di dialogo, in un mondo che, purtroppo, non trova pace».

Ma l'intento della serie non era proprio quello di mostrare il punto di vista di entrambi i popoli?

«Sì. Per me questa era la sfida. Era fondamentale che la serie fosse più bilanciata possibile. I personaggi sono rappresentati come esseri umani che fanno enormi errori, da tutte e due le parti. Non c'è bianco e nero, tutti falliscono. La serie inizia con una strage a un matrimonio da parte dell'esercito israeliano, poi c'è una vendetta e una contro vendetta che innesca una spirale terribile».

Ugualmente la serie ha ricevuto molto critiche Lei ha temuto ritorsioni?

«Non si può piacere a tutti. Però molte persone mi hanno scritto che per la prima volta hanno provato empatia per entrambe le parti. E mi hanno raccontato, per esempio, di aver deciso di far imparare l'arabo ai figli per capire i loro vicini. Per me questa è una vittoria».

Il suo personaggio viene coinvolto in una tale spirale di violenza, sopraffazione e disperazione. Dov'è allora la speranza?

«Nelle intenzioni del personaggio. Nel suo volere portare la pace. Anche se alla fine si arrende. È importante che sia una donna forte, con una posizione sociale alta, una dottoressa. Tutta la serie insegna che se prendi parte alla guerra, da qualsiasi parte, incontri morte e distruzione.

La violenza si respira dalla prima all'ultima scena

«Io infatti non ho mai guardato la serie in televisione, altrimenti mi provoca incubi. Vedo solo le parti in cui recito io per capire se ho lavorato bene e migliorarmi. Mentre giravamo, la guerra continuava e la realtà si confondeva con le riprese, una situazione troppo dura per me».

Ha dovuto imparare l'arabo.

«Si, ma mi viene facile. Parlo otto lingue, per recitare uso la tecnica di imparare a memoria le frasi. Ora sto studiando l'italiano, mi sono esercitata anche qui al festival della Magna Grecia. Perché nella mia prossima pellicola interpreto la parte di una italiana, ma non posso dire nulla perché non ho ancora firmato il contratto».

La serie l'ha lanciata nel mondo del cinema: ha partecipato all'ultimo film di Terrence Malick, The Last Planet, dedicato alla figura di Gesù .

«In effetti il direttore del casting è un fan di Fauda e vedendomi nella serie mi ha chiamato per un provino. Come è noto, Malick tiene molto alla riservatezza. Posso dire solo che il mio personaggio si chiama Anna, ma non interpreto la figlia di Maria, come è stato erroneamente scritto. E che The Last Planet è un titolo di lavorazione, potrebbe essere cambiato. È stato un regalo per me lavorare con lui. Tra di noi c'è stata subito sintonia, mi sono riconosciuta in lui e nella sua spiritualità».

E ora girerà un film di Yvan Attal con Charlotte Gainsbourg e Daniel Auteuil

«Cominceremo nei prossimi giorni, Covid permettendo. Racconta la vicenda di una ragazzo accusato di stupro e del processo che deve accertare se il fatto è accaduto realmente. Dove sta la verità. Un tema molto attuale che richiama anche tutto il dibattito del Me Too. Bisogna imparare a proteggersi, a dire no, a capire i limiti del proprio corpo e della propria mente ».

Movimento che ha scoperchiato vicende terribili come quelle di Weinstein o Epstein. Anche a lei è capitato di subire molestie?

«Non solo gli uomini, anche le donne possono

essere manipolatrici. Ho incontrato un insegnante che ha provato a farmi del male e ha rovinato la vita ad alcune mie amiche. Anche per questo motivo voglio interpretare ruoli di donne che si trovano in situazioni difficili».

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