Ideali e violenza, ecco la vera storia del neofascismo

In "San Babila. La nostra trincea" Cesare Ferri, ex Ordine Nero, racconta gli anni Settanta con un'autobiografia senza sconti per nessuno

Ideali e violenza, ecco la vera storia del neofascismo

«Qui non ci sono suggerimenti né politici né ideologici perché altro era il mio scopo: raccontare la storia dei ragazzi di San Babila, tra i quali c'ero anch'io, che hanno combattuto per un ideale». Questa è la frase centrale della prefazione di Cesare Ferri al suo romanzo storico-autobiografico San Babila. La nostra trincea (Settimo Sigillo, pagg. 286, euro 25, reperibile presso ordini@libreriaeuropa.it) in uscita in questi giorni. Finalmente, un vero spaccato, senza voli pindarici e millanterie, su quello che fece il neofascismo milanese (si noti che Ferri non scrive mai «sanbabilini», termine coniato dai media, ma sempre «fascisti») negli anni '70.

Ferri e i suoi camerati non volevano essere travolti dall'ondata rossa che partendo dalla Statale aveva sconvolto Milano. Da qui nasce il racconto di una gioventù ribelle e violenta unita da un fedele attaccamento all'idea di fascismo. Ferri non fa (e non si fa), racconta le sue battaglie in piazza insieme a Giancarlo Esposti (poi morto nel noto conflitto a fuoco coi carabinieri a Pian del Rascino), con Gianni Nardi, con il «mazziere» Mammarosa e con tanti personaggi ormai morti e dimenticati come Riccardo Manfredi e Marco Petriccione... Racconta dei suoi coltelli, delle sue pistole, dei suoi attentati prima con le SAM (Squadre Azione Mussolini) poi con Ordine Nero, del rapporto fedele e sincero (al limite del fanatismo) che lo legava ai camerati nelle varie azioni. Sembra un mondo lontano anni luce, ma a quei tempi se si aveva la «colpa» di portare le scarpe Barrow's o i RayBan calati sul naso, si rischiava di farsi spaccare la testa a colpi di spranga o di «Hazet 36», quindi i ragazzi di San Babila - che erano in netta minoranza rispetto ai rossi - hanno deciso di difendersi con la violenza. E fu una sorta di guerra civile...

Ma come giudica Ferri i ragazzi di oggi rispetto alla sua generazione? «La maggior parte dei giovani d'oggi mi sembrano meno virili di quanto lo fossimo noi, posto che la virilità è un modo di affrontare la vita e non c'entra niente con il mostrare i muscoli. Certo però che l'interpretazione della virilità dipende dallo spessore intellettuale e spirituale di ciascuno». Però loro mostravano i muscoli, fin troppo. «In realtà per difendere l'idea all'epoca era necessario lottare perché noi eravamo davvero una trincea all'interno di una Milano dominata dai comunisti. Non picchiavamo per il gusto di farlo ma per necessità. Il nostro mostrare i muscoli era determinazione e non narcisismo». E il mostrare i muscoli dei giovani di sinistra? «Quella era arroganza», sottolinea laconico Ferri, che ha combinato una valanga di «casini», era in prima fila anche nell'aprile del 1973 quando morì l'agente Antonio Marino durante una manifestazione dell'MSI, fu incarcerato e poi rilasciato per ingiusta detenzione per la strage di Brescia e oggi è un romanziere e autore di testi teatrali, ma questo è sicuramente il suo libro più sofferto. Una storia iniziata in corso Monforte 13, nella sede della Giovane Italia (l'ala giovanile dell'MSI) che quando chiuse si trasferì appunto in piazza San babila. «Mi iscrissi alla Giovane Italia da ragazzo, i comunisti non li vedevo con simpatia per un fatto naturale. Mi ha subito colpito positivamente il legame tra questi giovani».

Il passaggio in San Babila fu dunque «sofferto ma necessario. Chiusa la sede dovevamo manifestare comunque la nostra presenza. Alcuni andarono nella sede dell'MSI, altri in San Babila». Ma i rapporti col partito erano tesi... «Non condividevamo certe posizioni politiche borghesi del partito ma i rapporti erano buoni, tanto è vero che facevamo le manifestazioni insieme».Ferri si assume le sue responsabilità raccontando per filo e per segno i suoi attentati giovanili con le SAM. «Non sapevamo come intimorire i compagni che erano infinitamente più numerosi di noi. Quindi s'è pensato di colpire le loro sedi facendo ben attenzione che non vi fossero feriti e men che meno morti. In sostanza dietro ogni attentato c'era un avvertimento, cioè a dire: siamo pochi ma siamo disposti a tutti». Poi c'è stato il suo salto verso Ordine Nero: «Lo Stato ci è sempre stato nemico. Quindi abbiamo deciso di alzare il tiro esattamente come hanno fatto i compagni creando le Brigate Rosse». Per Ferri i comunisti erano una sola cosa: «Nemici, esattamente come loro consideravano noi», dice con risolutezza.

Però, da vero cane sciolto, in una circostanza speciale si è messo dalla parte di Mario Capanna: «Ha avuto il coraggio di presentarsi da solo al funerale di Annarumma rischiando di essere linciato dai cosiddetti benpensanti: di contro noi non l'abbiamo assolutamente attaccato. Non mi sono mai piaciuti i linciaggi».

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