Incoerenze e «copia e incolla» della (falsa) storia partigiana

Come spiega l'ex comandante «Stefano», i documenti artefatti mirano a «presentare la Resistenza come un fenomeno sorto da una volontà pianificata. Ma non fu così»

Roberto FestorazziMario Tonghini, 93 anni, comasco, è il superstite leader partigiano che operò, durante la Resistenza, a stretto contatto con Oreste Gementi («Riccardo»), che fu comandante della Piazza di Como del Cvl, il Corpo volontari della libertà guidato dal generale Raffaele Cadorna.Gementi, in una lettera del 10 aprile 1992 a Giusto Perretta, fondatore e a lungo direttore dell'Istituto comasco per la storia del movimento di Liberazione, accusò Giuseppe Ciappina-Coppeno di aver costruito, nel primissimo dopoguerra, un intero arsenale documentario apocrifo, su richiesta del suo partito, il Pci.Materiale che fu alla base della pubblicazione del volume, di oltre 600 pagine, curato dalla stesso Perretta, e intitolato La 52ª Brigata Garibaldi Luigi Clerici attraverso i documenti.Un testo, edito nel novembre del 1991 dallo stesso Istituto storico lariano (oggi intitolato a Pier Amato Perretta, martire antifascista e padre di Giusto), che contiene la raccolta di circa 550 carte presentate come «originali».Tonghini, ex comandante di Brigata, con il nome di «Stefano», convinto anticomunista, ha passato alla lente d'ingrandimento i materiali pubblicati da Perretta, giungendo ad avvalorare in pieno la denuncia del comandante «Riccardo», che fu la più alta autorità militare partigiana nel territorio dove si consumarono l'epilogo del fascismo e la morte di Mussolini.L'operazione di «assemblaggio», in serie, dei documenti, balza evidente da alcuni dati di fatto. In questi testi si osservano anomalie ricorrenti: spesso, i rapporti non sono né datati, né firmati. Il che contraddice una prassi allora corrente, nota Tonghini.Anche alla prova dell'analisi strettamente contenutistica, le carte si rivelano tutt'altro che veritiere.Osserva il comandante «Stefano»: «Esaminando i testi, si coglie la tendenza a far apparire come l'origine delle formazioni scaturisse dalle funzioni di comando. Come se vi fosse una regia organizzativa che le facesse sorgere dal nulla. Ma ciò corrisponde alla visione del Partito comunista, che aveva l'interesse, ex post, a presentare la Resistenza come un fenomeno sorto da una volontà pianificata. Noi invece sappiamo che non fu così. Il movimento di Liberazione nasce con bande spontanee, costituite da uomini e da donne, che si coagulano subito dopo l'8 settembre 1943, sulla base di motivazioni squisitamente patriottiche. Se si va poi a vedere il racconto che emerge, dalle carte, balzano all'occhio contraddizioni macroscopiche. Parlo, naturalmente, per fatti e circostanze che siano a mia diretta e personale conoscenza. Un documento del Comando di raggruppamento delle Brigate Garibaldi, datato 9 settembre 1944 (a pagina 135 del volume), qualifica la nostra formazione autonoma dei Cacciatori delle Grigne operante nel Lecchese e nei cui ranghi esordii io stesso quale partigiano , come appena costituita e da inquadrare. Una cosa da non credere: i Cacciatori delle Grigne nascono già alla metà di settembre del 1943, con le prime riunioni clandestine tenutesi in casa del comandante Lino Poletti».Passiamo alla lettera, datata 11 dicembre 1944, e riprodotta a pagina 369 del volume, che Perretta attribuisce alla mano di Dante Gorreri.Il documento, diretto al capitano «Neri» (Luigi Canali), è completamente inattendibile, perché, in esso, si legge che i superiori vertici del Partito comunista intendevano affidare a Mario Tonghini e al suo compagno partigiano Dino Gaffuri «Walter» la ricostituzione della 89ª Brigata «Poletti», quella dei «Cacciatori delle Grigne».La datazione, anzitutto, non regge, perché, a quell'epoca, Tonghini era da mesi operativo nel territorio di Como, impegnato a fondo nell'organizzazione delle formazioni di pianura e di città. Il foglio, dunque, è sicuramente apocrifo, come ci conferma lo stesso comandante «Stefano»: «Non ho mai ricevuto disposizioni di tal genere: è da escludere che potessi essere rimandato indietro in montagna a ricostituire la Poletti, che avevo lasciato alle mie spalle mesi prima, dopo 5 rastrellamenti condotti contro di noi da tedeschi e fascisti».Va ancora peggio per un secondo documento, pubblicato alle pagine 390 e 391, e datato soltanto quattro giorni dopo il precedente: 15 dicembre 1944.Si tratta di una comunicazione, firmata da «Neri», indirizzata in primis al battaglione «Nannetti» della 52ª Brigata Garibaldi, in cui si annunciano misure di ricostituzione della 89ª Brigata «Poletti» e, al contempo, si invitano Tonghini, «Walter» e altri a raggiungere le formazioni «Ricci» per rifondarle. I nuclei partigiani guidati dal capitano Ugo Ricci, rimasto ucciso in un'imboscata, a Lenno, sul lago di Como, il 3 ottobre 1944, erano sbandati dopo la caduta del loro comandante.Qui si rasenta la follia. Appena quattro giorni dopo le presunte direttive tendenti a dirigere gli sforzi di Tonghini alla ricostituzione della Brigata «Poletti», giunge un ordine contraddittorio, che non contiene alcun riferimento alle motivazioni della revoca delle precedenti disposizioni di impiego operativo. Le aree di destinazione, infatti, non sono affatto contigue: le forze superstiti della formazioni Ricci sono attestate nella zona della Val d'Intelvi, mentre la «Poletti» ha sede nell'altro ramo del Lario, quello lecchese.Vi è però un'ulteriore circostanza che conferma in pieno la fondatezza della denuncia di Gementi. Nel volume curato da Perretta vi sono blocchi di testo che ricorrono, praticamente identici, in più parti. La seconda pagina della già citata relazione del 15 dicembre 1944, si può ritrovare, pari pari, in un documento del 3 dicembre precedente, intitolato «Situazione delle formazioni Ricci» (pagine 332-333).L'unica differenza, però significativa, tra i due testi, è data dal fatto che la versione di pagina 333 «chiude» con la firma del capitano «Neri», mentre quella inserita nella relazione del 15 dicembre (pagina 391) la omette, perché il testo prosegue per un'ulteriore facciata. Si tratta di una prova schiacciante della manipolazione operata dagli assemblatori di materiali. L'officina della contraffazione, insomma, mostra i suoi difetti. Costruisce «blocchi» di testi prefabbricati, veri e propri kit che poi «monta» nei contesti in cui essi appaiono più funzionali.Ne risulta che specialisti del «copia e incolla» erano in azione con decenni di anticipo sulla tecnologia informatica.Non meno sorprendente è una relazione dell'ispettore regionale garibaldino Pietro Terzi «Francesco» alla Delegazione lombarda delle Brigate Garibaldi, riprodotta alle pagine 465 e 466. Vi si riferisce, tra l'altro, dell'avvenuta liquidazione del distaccamento «Tomasich», come di un evento recente. La data riportata sul documento è il 27 febbraio 1945: a quel tempo, il «Tomasich», attestato sul primo tratto dei Monti Lariani, era però caduto da circa un mese!Del tutto priva di verosimiglianza, infine, è una lettera dello stesso «Francesco» al comandante «Riccardo», datata 31 marzo 1945 (la si trova a pagina 501), ossia ben quattro giorni dopo che Gementi era stato arrestato, a Milano, durante una retata in cui era caduto l'intero vertice militare clandestino della Resistenza lariana.

Una circostanza, quella dell'inattendibile datazione, la quale obbligherebbe, qualora la si volesse prendere sul serio, a immaginare un inoltro della corrispondenza nelle carceri fasciste.Insomma, da qualunque parte la si voglia considerare, la fabbrica del falso confeziona le pentole ma non i coperchi. 2-fine. La puntata precedente è uscita ieri

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