Firenze. Secondo una falsa etimologia il termine «osceno» deriverebbe da os-skené, letteralmente «fuori dalla scena». Così lo intendeva per esempio Carmelo Bene. In questo senso, i corpi nudi di Jenny Saville sono «osceni», la carne a tratti straborda oltre la cornice, riempie, comprimendolo, la spazio fino al limite del possibile, tanto che anche le zone periferiche del quadro acquistano centralità: si pensi all'immenso Fulcrum, una tela di quasi cinque metri, da oggi esposta nel salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze, che il curatore Sergio Risaliti definiscisce disturbante per la drammaticità delle tre donne raffigurate, strette carnalmente in un abbraccio che sa di difesa e angoscia. Nello specifico, Jenny Saville sembra occhieggiare più ai corpi devastati e sovraesposti di Lucien Freud, che alla pittura introversa di Bacon di cui pure è debitrice, ma accelerandone il disfacimento dentro la stretta contemporaneità di una figurazione che paga pegno all'informale e al gestuale. E non per nulla, una schiatta di epigoni considera la Saville un maestro, tenta di riprodurre i suoi volti alla sua maniera, sporcandone i tratti a forza di larghe spatolate, con esiti però meno convincenti e senza l'intensità della pittrice inglese, ai tempi membro della Young British Artist e ora riservata cinquantenne salita alla ribalta come pittrice vivente più quotata di sempre (un'opera da Sotheby's ha sfiorato nel 2018 i 10 milioni di sterline).
La forza della Saville, paradossalmente, non sta nella sua adesione al contemporaneo, che pure c'è, semmai nel suo classicismo, come evidenzia bene la mostra in corso a Firenze (fino al 20 febbraio 2022), con focus al Museo Novecento, ma diffusa poi in altre sedi che permettono un dialogo con l'antico, senza quella falsa retorica di molti artisti concettuali che amano affiancarsi ai maestri del Rinascimento cercando di accreditarsi. Nel caso della Saville non c'è nessun intento lucrativo in termini di immagine, e basta recarsi al Museo dell'Opera del Duomo, impareggiabile scrigno di capolavori, per restare estasiati davanti ad una sua Pietà disegnata di grande formato, circa tre metri di altezza, che ben compete senza nessun intento dissacratorio con la Pietà Bandini di Michelangelo. Ed anche al Museo degli Innocenti e al Museo Casa Buonarroti, si scopre il talento di Jenny per il disegno, che sta alla base della sua pittura, per certi versi preparandone gli esiti, per altri assurgendo a campo di lavoro e di indagine autonomo, come dimostra lo splendido The Mothers (2011), un carboncino e pastello su tela che non teme il confronto con alcuni capolavori come La Madonna col Bambino di Luca della Robbia.
La compostezza formale dei disegni della Saville, che spesso rimandano ai modelli arcaici, senza negarsi la modernità del secolo, fanno comprendere le ancora grandi potenzialità della pittura-pittura, non solo per cogliere lo spirito dei tempi, ma per definire valori assoluti, di bellezza e senso. L'insistenza di raffigurare volti e corpi sembra l'antico desiderio di capire il mondo attraverso l'uomo, o di cercarne la verità, il suo essere profondo.
Paradigmatico è il ritratto Rosetta II esposto nello spazio sopra l'altare dell'antica cappella dello Spedale, ora Museo Novecento, un tempo occupato da una grande tavola tardo Cinquecentesca di Ludovico Buti, e che sarà visibile anche di notte; Rosetta è una giovane donna non vedente, glaucopide, raffigurata dalla Seville nell'atto, quasi stralunato, di cercare di vedere, gli occhi lattiginosi, sbarrati in una smorfia di dolore che le devasta anche il viso, una sorta di Tiresia al femminile, costretto a guardare dentro di sé poiché incapace di guardare fuori, e per questo dotato di doti divinatorie; lo sguardo rivolto verso l'alto è quello tipico delle Sante colte nella tensione dell'ascesi, quando la divinità le attrae e le acceca per troppa luce.
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