Jobs, da hippy a capitalista in nome della rivoluzione

Jobs, da hippy a capitalista in nome della rivoluzione

Quando si svolse la Battle of People's Park a Berkeley, nel maggio 1969, la madre di tutte le battaglie dei sessantottini americani, un corpo a corpo selvaggio tra studenti e poliziotti, Steve Jobs aveva quattordici anni. Non prese contatto diretto con il clima universitario incandescente. Prima gli studi a Cupertino e poi in Oregon (non ultimati) avverranno tra animi ormai placati. Ma la California, soprattutto la parte alta di San Francisco, era comunque il lembo più psichedelico d'America. E lì il giovane Steve viveva sospeso tra passione per le nuove tecnologie e per l'antico misticismo orientale.
Da che parte tuffarsi? A Ovest o a Est? Seguire la logica evoluzione della carriera accademica nella direzione della vita borghese, o ricalcare le orme di Kerouac? Consolidare gli schemi o rompere gli schemi? Una chiara e intrigante risposta visiva a tale quesito la fornisce il film Jobs di Joshua Michael Stern, in uscita domani sugli schermi americani e a ottobre in Italia. Jobs è un film indipendente. Per questa ragione non ha avuto vita facile. Quanti sono interessati ad una prossima biografia di grande redditività su Jobs hanno sparato sulla pellicola a palle incatenate: inaffidabile, sballata, infondata. Al Sundance Film Festival, tempio (un po' appesantito) degli indipendenti, dove il film è stato presentato in gennaio, ha suscitato scarsi entusiasmi. Le reazioni della stampa sino ad oggi sono state tiepide. L'uscita della pellicola è stata spostata più volte.
Per la conquista del primato al botteghino di metà agosto sono stati prenotati duemila schermi, e i tre concorrenti nell'arena appaiono forti e ben attrezzati: il thriller Paranoia con Gary Oldman e Harrison Ford; la commedia d'azione Kick-Ass 2; The Butler con un cast troppo lungo, impreziosito anche dalla sacerdotessa del talkshow Oprah Winfrey e dalla principessa del benessere Jane Fonda. Insomma, l'avrete capito, la vita di Jobs sarà dura. Forse durissima. Eppure al film di Stern non mancano talento, attori, precisione.
Certo non è sontuoso e autorevole come Lincoln di Steven Spielberg; grintoso e veloce come The Social Network di David Fincher; schizzato e debordante come Il grande Gatsby di Baz Luhrmann. È però un film interessante, poiché illumina la zona più difficile da comprendere della personalità di Steve Jobs. L'uomo con jeans e maglione dolcevita che sapeva trasformare la presentazione di un oggetto in un evento epocale, l'inventore più innovativo che viveva nel presente ma catapultato nel futuro, non ha i tratti propri del self made man americano. Non ha il volto deciso e minaccioso di Charles F. Kane di Quarto potere di Orson Welles, né quello lieve e timido di Bill Gates (buono come Paperino, intelligente come Archimede).
Jobs è un figlio dell'America moderna, un luterano convertitosi al buddismo, che si è lasciato alle spalle la Bibbia, la Colt, gli stivali. Della stagione dei “figli dei fiori” ha ereditato solo l'aspetto della ribellione. Nella vita di Steve Jobs si salda la potenza della ribellione degli anni Settanta con la forza d'urto della rivoluzione tecnologica fiorita nella Silicon Valley degli anni Ottanta. Jobs è stato un rivoluzionario autentico, ma dell'informatica. L'assalto lanciato al cielo, coronato da successo, potrebbe apparire una contraddizione. O, se si preferisce, un tradimento. Dalla spiritualità della New Age alla creazione seriale di oggetti sempre più costosi e talvolta superflui della Next Age.
Il protagonista di Jobs, il più grande dei mogul postmoderni, il Signore dell'Immaterialità, il dominatore della navigazione virtuale, era un ragazzo che amava i Beatles, i Rolling Stones e Buddha, che ebbe la fortuna di non conoscere il pantano velenoso e mortifero del Vietnam. Poi scoprì il lavoro e l'innovazione. Lavorò. Lavorò. E lavorò ancora. Non era un tipo con cui trascorrere piacevolmente una vacanza o bere una birra in riva al mare. Ma aveva un grande sogno, materializzatosi. Ci sarà tempo, in futuro, per realizzare ritratti cinematografici più complessi o grandiosi di Jobs. Ma il tratto biografico fissato da Joshua Michael Stern si sposterà di poco.

In fondo, coloro che volevano “socialistizzare” e “decapitalistizzare” l'America negli anni Sessanta, da Bill e Hillary Clinton a Steve Jobs, alla fine hanno fatto l'esatto contrario, mettendo il turbo al capitalismo e il silenziatore alle loro giovanili illusioni. Il socialismo e l'arcobaleno d'Oriente, i Clinton e l'uomo di Cupertino li hanno persi per strada. Hanno contribuito però, in maniera determinante, a rimodellare il sogno americano. E non è roba da poco.

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