Trent’anni fa, proprio nello stesso fine settimana di passaggio da giugno a luglio, i dirigenti della Warner Brothers erano preoccupati. Guardavano i dati della programmazione di Blade Runner, regia di Ridley Scott. E storcevano il naso. La catastrofe, come si temeva, almeno era stata evitata. Ma il film marciava a passo lento. Una proiezione a San Diego, prima dell’uscita, si era rivelata un disastro. Produttore e regista erano corsi ai ripari. Tagli, aggiunte, cambiamenti, qualche idea nuova. Ma i dubbi di entrambi erano rimasti. E il pubblico li stava confermando. Iniziava così, traballando, l’avventura dell’opera del cinema contemporaneo più amata, adorata, citata, commentata, studiata, capita, fraintesa. E soprattutto vista, grazie ad una prodigiosa operazione di continui rifacimenti (mai essenziali) e divulgazione di chiarimenti da parte del regista (anch’essi mai essenziali). Se la prima uscita di Blade Runner non fu spettacolare (36 milioni di dollari, con il prezzo medio del biglietto a circa tre dollari: oggi sta quasi a otto), la fortuna commerciale del film all’estero si rivelò migliore. Ma l’aspetto più importante fu lo scatenarsi di una vera e propria ossessione per il film di Ridley Scott da parte dei giovani. La scintilla scattò subito e ha alimentato senza sosta il fuoco che ha reso Blade Runner un oggetto di culto.
Era chiaro che trasporre per lo schermo Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, racconto di fantascienza scritto da Philip K. Dick nel 1968, non sarebbe stato un lavoro semplice. Ma c’era la fila di registi della Nuova Hollywood per dirigere il film: Martin Scorsese, Adrian Lyne, Bruce Beresford, Michael Apted. Ebbe la meglio il regista del momento, l’inglese quarantacinquenne Ridley Scott, una carriera nella pubblicità, passato al grande schermo con un’opera d’esordio tratta da Conrad (I duellanti, 1977), seguita da un film di fantascienza, oscuro e muscolare (Alien, 1979). Blade Runner arrivò quando la reaganomics stava mettendo il turbo, e il postmodernismo stava espandendosi ovunque. Gianni Vattimo nel 1983 pubblicava Il pensiero debole, e un anno dopo Milan Kundera L’insostenibile leggerezza dell’essere. Jean Baudrillard intanto rifletteva su simulacri e simulazione, cioè sul passaggio dall’umano al post-umano. La storia, già col fiato corto, emetteva gli ultimi sospiri, alla pari di metafisica, religione, freudismo e marxismo. Insomma come aveva intuito l’oracolare Jean-François Lyotrad, i grandi racconti stavano messi davvero male.
Di cosa parla Blade Runner? Di tutto. Essendo un’opera aperta, ognuno può piegarla al proprio uso. Un concetto però possiamo fissarlo: parla della morte di Dio. Un tempo i grandi racconti (la Bibbia, ad esempio) ricordavano che gli uomini erano stati creati da Dio. Bene, in Blade Runner gli uomini li fabbrica la Tyrrel Corporation (eccolo finalmente l’oltre-uomo, o superuomo, invocato da Nietzsche): esseri umani (non robot ma replicanti), copie degli umani (alla pari del software del computer), sempre più forti, intelligenti e potenti. Un lotto di replicanti è riuscito male. Bisogna ritiralo, poiché fa male al mercato. Come in un vecchio western, ambientato però nella Los Angeles del 2019, tempestata dalla pioggia e dalla notte perenne, il «cacciatore di taglie» Deckard (Harrison Ford) deve ritirarli (accopparli). Ad uno ad uno li fa secchi. Un po’ pistolero alla John Wayne un po’ detective esistenzialista alla Humphrey Bogart, Deckard si innamora di una replicante, Rachel, vestita come Ava Gardner in un noir anni Quaranta. Finale luminoso, o finale in tinta con l’oscurità imperante? Ridley Scott prima scelse la luce. Deckard e Rachel fuggono in macchina. Dieci anni dopo, si pentì. Inveì all’indirizzo delle intollerabili imposizioni dei produttori (non era vero) e sfornò il Director's Cut: finale buio, soppressione della voce fuori campo, aggiunta del sogno di un unicorno per lasciar intendere che Deckard sia un replicante (ma forse lo era già nella prima versione, e non è detto con certezza che lo sia nella seconda). Intanto la tecnologia digitale progrediva: pertanto necessitava una nuova versione della nuova versione, The Final Cut (2007). È finita? Macché.
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