L'arciconfraternita di Giuseppe Lupo ha il dono laico di conservare la gioventù

Negli anni '80 studenti cattolici, oggi uomini maturi fra ironia e nostalgia

L'arciconfraternita di Giuseppe Lupo ha il dono laico di conservare la gioventù

Dimenticate Il grande freddo, celebre e mesto film sulla nostalgia della gioventù: avendo studiato negli anni Ottanta, a Milano, i membri della mirabolante arciconfraternita del Clan immaginata da Giuseppe Lupo nel suo nuovo romanzo Tabacco Clan (Marsilio) hanno assorbito dosi di ottimismo e pragmatismo sufficienti a difendersi da ogni rimpianto. «Se esiste una regola, quando ci raduniamo, è quella di non raccontarci i guai. C'è chi è stato licenziato, chi ha il matrimonio incrinato, chi ha perso il padre o la madre, però rispondiamo sempre con il pollice alzato: va tutto a meraviglia!». E dimenticate anche gli Amici miei di Monicelli, vista la matrice rispettosamente cattolica che accomuna questa banda di ex compagni di università riuniti sulla sponda del lago Maggiore, a Stresa, in un albergo dove nel secondo dopoguerra ha soggiornato nientemeno che Churchill con la sua amante. L'occasione per una rimpatriata con i fiocchi è offerta dal matrimonio tra il figlio del «Cardinale» (il titolo altisonante è uno scherzo, l'uomo è laureato in scienze bancarie) e la figlia di Piercamuno, giurisperito, esponenti di spicco di una «società» dedita alla celebrazione dell'amicizia con tanto di cariche ufficiali: «un Presidente, un Vicepresidente, un Segretario e poi tutti gli altri, a seguire». Sodalizio nato quarant'anni prima, nella Milano da bere, in un pensionato gestito dalla Chiesa con rientro coatto entro le undici di sera, frequenza obbligatoria alle funzioni religiose e auspicata partecipazione a discutibili operazioni di igiene morale, quale per esempio la vandalizzazione del gigantesco cartellone con il sedere di Roberta (serviva a vendere uno slip, ricordate?) che a quel tempo si stagliava sui palazzi della città meneghina.

Dopo la laurea, quasi tutti i membri del Clan hanno realizzato i loro sogni, compreso il narratore che ha un nome di battaglia, «Piccolo Chimico»; un chimico beninteso agnostico e non fanatico, privo di ridicole illusioni sul potere magico della tavola periodica. Mentre la coppia di fidanzati si fa attendere, generando il sospetto che per qualche ragione o contrattempo non vi sarà alcun matrimonio, si gioca a pallone, si fa surf sul lago, si rievocano decine di aneddoti comicissimi o commoventi; ma soprattutto torna a furoreggiare il lessico del gruppo - vera carta di identità collettiva - con le molte espressioni in codice istantaneamente riattivate. Dare del «capellone» a qualcuno equivaleva a riconoscerne la furbizia, stabilito che il massimo dell'invidia era indirizzata alla sagacia dei cantanti rock, oggetto di un'adorazione in precedenza riservata, parola di Houellebecq, solo ai faraoni. «Ci aspetta via Clericetti» è come dire «ci buttano fuori»: in una pensioncina di via Clericetti si rifugiavano i ragazzi espulsi dallo studentato perché religiosamente tiepidi, un vizio inevitabile visto il timore universale di «essere conciati», cioè avvolti nelle spire di un cattolicesimo troppo esigente per essere compatibile con lo spirito dei vent'anni.

Come ribadito dal titolo, il nome del club è preso dal Clan, il noto tabacco per pipa, popolare ed ubiquo, che con la sua bustina chic a disegni tartan simboleggia alla perfezione un romanzo scritto

benissimo, con rispetto della letteratura e degli uomini; un romanzo che senza mai cadere nella banalità conserva un tono alla mano, colloquiale, riuscendo peraltro a raccontare con affabile ironia quarant'anni di storia italiana.

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