La letteratura oggi è muta davanti alla tragedia

Gli scrittori non sanno raccontare pandemia, incendi e tragedia afghana. L'Occidente tace

La letteratura oggi è muta davanti alla tragedia

La domanda è di quelle antiche, antiche perché vere e vere perché antiche. A che serve la letteratura nel tempo dell'orrore? Quali racconti credibili, quale senso possiamo offrire ai nostri simili? È una domanda senza sponde ideologiche, bipartisan. È la domanda che una coscienza ferita, quindi umana, non può permettersi di non porre a sé stessa. Immagino cosa deve aver significato, per un romanziere europeo dell'immediato dopoguerra, la notizia dei lager nazisti, o quella della distruzione di Hiroshima e Nagasaki.

Dopo quasi due anni di tragedie - dal covid al disastro ambientale su scala planetaria, fino alle spaventose testimonianze che ci arrivano in questi giorni da Kabul - è più facile capire il loro spaesamento, che produsse di fatto una caduta di qualità della narrazione nell'Europa occidentale (da Proust, Mann e Musil si precipitò a Sartre, Camus e Moravia). D'un tratto il genio, la follia, la libertà, la spregiudicatezza che avevano nutrito le pagine di quei grandi scrittori lasciarono il posto a un moralismo cupo e sedentario. Come aveva prefigurato T. W. Adorno, restò soltanto qualcuno che, per salvare la grandezza di un tempo, si ritirò, dolorosamente, nella quasi-incomprensibilità (Beckett, Gadda). D'accordo, si dirà: ma oggi, a differenza di cent'anni fa, la narrazione del mondo non è affidata soltanto alla letteratura. Il mondo è un racconto che procede attraverso la tv, i social, i giornali (sia pure ancora per poco), la pubblicità, e soprattutto attraverso le grandi piattaforme come Netflix o Prime. In questo grande caos narrativo la tragedia trova la sua voce nei modi spesso più sorprendenti. Non parlo dunque della pletora di richiami giusti ma sempre conditi di moralismo sulla tutela del pianeta o sul rispetto delle diversità sessuali. Parlo di segnali strani, marginali: di quelle cose che vengono rubricate sotto la dicitura «fonti secondarie». È interessante, per esempio, il moltiplicarsi di videogiochi che includono, in termini realisti, la possibilità del dolore e della morte. Dal pesciolino che rischia di morire (e spesso muore) perché il bacino dove viveva si è disseccato alla moglie tradita e incinta che lascia il marito e va a vivere in una casa diroccata, dove dovrà difendere il neonato dal gelo e dai topi. La vita di belle ragazze viene minacciata da enormi ragni, la loro verginità da energumeni contro i quali nulla può il fragile fidanzatino. Il male assume forme differenti: da un mostro distruttore all'inaridimento dell'ambiente fino alla solitudine che segue il fallimento di una famiglia. E non ci vuole molto per stabilire un'analogia con la vita di tutti noi in questo strano, difficile momento, tra pandemia, inondazioni, incendi e - ora - la tragedia afghana (con la caduta verticale di credibilità della cultura alla quale apparteniamo, la stessa che ha prodotto Proust e Hemingway). Ora se, tra libri, scandali, social, videogiochi, pubblicità e molto altro il mondo ci precipita addosso nella sua insensatezza, alla letteratura cosa resta?

Chi, come me, è nato e cresciuto nel XX secolo, ha dato un grande credito alla letteratura e alla sua capacità di scavalcare il caos, o quantomeno di scalarlo fino alla sommità per gettare un occhio su ciò che sta dopo il caos: il nulla, forse, o forse un'ultima, inesauribile speranza. Ma la speranza, o il senso - l'idea che tutto questo caos abbia un senso e ci porti, alla fine, da qualche parte - non si sviluppa solo analizzando la realtà. Anche perché la realtà si apre, di norma, solo a chi ha delle precise domande da rivolgerle. È il livello delle domande che la animano a fare la grandezza e l'utilità di una narrazione. Dobbiamo ritrovare le domande, quelle vere, quelle che non si perdono come pula al vento della storia.

Ma, detto questo, rimane alle nostre riflessioni una coda spiacevole. Premetto: io non dico quello che vorrei dire, dico quello che vedo, e spero vivamente di sbagliarmi. Vado al sodo e mi domando: perché i talebani hanno vinto culturalmente la guerra in Afghanistan? È una domanda cruciale, che riguarda tutto. Davanti alle immagini tv dell'aeroporto di Kabul mio cognato ha commentato: «Quello che vediamo potrebbe succedere prima o poi anche a noi, ai nostri figli, ai nostri nipoti». Io non so se questo è vero, so però che i talebani hanno vinto anche perché una cultura talebana ha preso possesso del nostro mondo. Perché un mondo che ha abolito ogni mediazione, in cui tutti cercano solo di ottenere il massimo per sé, be', questo è un mondo talebano. Il politically correct - pur originato da esigenze giuste - è talebano. Correggere le fiabe di Andersen o Il mercante di Venezia è talebano.

In sostanza: una cultura senza sfumature, come quella in cui viviamo ogni giorno di più, una cultura in cui le opinioni hanno diritto di cittadinanza solo se radicalizzate (vedi talk show, social e tutto il resto) e dove la riflessione, la costruzione comune delle idee è bandita in nome di uno scontro perenne su tutto, bene: una cultura così è una cultura talebana e non ha nessun senso, nessuna prospettiva, nessuna speranza, nessun romanzo da offrire, a nessuno.

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