La lezione dei Maneskin e il "pericolo enfasi"

La band porta il rock a una generazione che non lo conosce. Ma occhio ai troppi complimenti

La lezione dei Maneskin e il "pericolo enfasi"

Percorso netto: dal marciapiede di Via del Corso a Roma al palco dell'Allegiant Stadium di Las Vegas in cinque anni appena. Dai provini a X Factor al messaggio di Mick Jagger che conferma al mondo «la grande serata con i Maneskin». Dopo aver «aperto» il concerto dei Rolling Stones davanti a 65mila persone, ora ai Maneskin tocca ufficialmente il ruolo di messaggeri generazionali del rock, di divulgatori della lezione dei «venerati maestri» a un pubblico che non li conosce, ossia in piccola parte i millennials e in stragrande maggioranza quelli della Generazione Z nati tra la fine degli anni '90 e la fine degli anni Zero (non ancora la Generazione Alpha nata dopo il 2010). Una ri-generazione. E forse è la prima volta che accade nella storia della musica.

Fino ad ora il rock è stato un susseguirsi di fasi, spesso in contrasto l'una con l'altra. Il rock'n'roll, l'hard rock, il prog, il punk eccetera, una lotta continua con i precedessori. Dopo il grunge di Alice in Chains, Nirvana e Stone Temple Pilots, la spinta rivoluzionaria del rock si è affievolita sulle grandi platee, lasciando spazio al rap nello spirito ribelle dei giovani. Rap poi urban poi trap poi mille altri rivoli creativi. Una generazione è cresciuta con il reattore Spotify, che ti può mandare ovunque in tempo quasi reale. Ma è cresciuta senza calamite rock che la attirassero su di uno stilema musicale assai distante dai cliché dell'hip hop eppure totalmente appagante per un'anima adolescente. I Maneskin sono questa calamita e a questo punto lo sono a livello mondiale. Sono la rinascita della musica suonata, delle chitarre graffiate e distorte, delle esagerazioni, delle canzoni che si disinteressano di brand, griffe, soldi e maschilismo. Da una parte ci sono i numeri (Mammamia altissima nella classifica Global di Spotify come Beggin e I wanna be your slave, il gruppo presente in 34 paesi del mondo).

Dall'altra c'è l'appeal che i loro suoni hanno su di un pubblico che non ne riconosce le origini, dai Led Zeppelin a Bowie e Marc Bolan fino ai Rage Against the Machine, e ne è inebriato. Una funzione quasi «musicalmente pedagogica» che ha aperto un mondo a una generazione che, a differenza di tutte le precedenti, rischiava di restare senza «idoli», e che davvero può rappresentare la rifondazione del rock, il rock reloaded, quello che ripartirà nei prossimi anni.

Dalla loro parte questi quattro ragazzi hanno la foga entusiasta di chi è partito dal nulla e ora si ritrova a pianificare tour mondiali. Una corsa così rapida da aver stuzzicato anche l'attenzione di tutti gli osservatori, anche di quelli più critici come l'autorevole Quirino Principe, per il quale il successo dei Maneskin è «una specie Covid mentale» che «fa accapponare la pelle, ma non diversamente da tante altre cose, come alcune figure istituzionali che raccomandano ai giovani di studiare la grande poesia italiana riferendosi a Mogol». Dopotutto il rock, sin dai tempi di Jerry Lee Lewis ed Elvis Presley, è sempre stato divisivo ma culturalmente attraente, criticato ma discusso e osservato ancor più che ascoltato. Così oggi ai Maneskin (che aprono la strada a tanti nuovi gruppi come i Mutonia di X Factor, ad esempio) può toccare il ruolo di alfieri della rinascita pur essendo italiani e, si sa, per un italiano esportare il rock è come vendere ghiaccio in Groenlandia.

Però c'è un però.

In tutta questa favolosa progressione, per i Maneskin è obbligatorio proteggersi dalle iperboli e dall'enfasi che è ben più sterilizzante dell'indifferenza. Dopo il loro concerto a Las Vegas se ne è sentita parecchia, per carità giustificata dall'evento.

Loro non sono i primi ad «aprire» i concerti di megastar negli Usa (la Pfm ad esempio ha suonato negli anni '70 con Santana, ZZTop e Deep Purple al massimo della fama). Ma possono essere gli unici a fare davvero la differenza in futuro.

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