Negli anni più bui della civiltà euro-atlantica, oggi assediata da ogni parte, hanno dimostrato non poco coraggio Luciano Pellicani, Nunziante Mastrolia e Giampiero Berti a dedicare una raccolta di scritti, I difensori dell'Occidente (Ed. Licosia), ai filosofi, agli scrittori, ai politici del Novecento che hanno difeso contro i totalitarismi del "secolo breve" - comunismo e fascismo - i valori della libertà politica e dell'umana dignità. Nei ventiquattro saggi (compresa l'Introduzione di Mastrolia) vengono ricordati un russo (Vasilij Grossman),un montenegrino (Milova Gilas), uno spagnolo (José Ortega y Gasset), due tedeschi (Edmund Husserl e Hannah Arendt), tre austriaci (Friedrich von Hayek, Ludwig von Mises, Karl R. Popper), due inglesi (Bertrand Russell e George Orwell), quattro francesi (Simone Weil, Raymond Aron, Jacques Ellul, Edgar Morin) e ben sette italiani (Benedetto Croce, Norberto Bobbio, Guglielmo Ferrero, Filippo Turati, Gaetano Salvemini, Ignazio Silone, Rodolfo Mondolfo, Carlo Rosselli). Certo meravigliano assenze non di poco conto come Max Weber, Isaiah Berlin, Bertrand de Jouvenel, Guido Calogero, Luigi Einaudi, Panfilo Gentile, Jean-François Revel, Mario Pannunzio, per limitarci a questi nomi, ma si potrebbe pensare - perché no? - a una serie di contributi sulla difesa dell'Occidente di cui il volume in esame faccia da apripista.
Come capita spesso alle sillogi, non tutti i contributi sono dello stesso livello: non di rado la retorica delle "coscienze integerrime che non si piegarono davanti al potere totalitario" prende la mano agli autori che, nella loro tavolozza concettuale, sembrano disporre solo del bianco e del nero. Inoltre, giunti a pagina 440, resta una domanda inevasa: che così l'Occidente? È "lo spirito europeo"? È il liberalismo? È la tolleranza? L'istituzionalizzazione della libertà di critica del governo, il poterlo cambiare senza spargimento di sangue, la società aperta, il rifiuto di ogni regime totalitario o più semplicemente autoritario-poliziesco sono conquiste irrinunciabili (ce ne stiamo drammaticamente rendendo conto!) ma costituiscono "regole del gioco" che nulla dicono sul "campo di gioco" ovvero su quel tessuto civile fatto di tradizioni, di costumi, di istituzioni e di credenze religiose che quelle regole fondano su terreni concimati e arati da secoli e che non consentono l'illusione che si tratti di "istituzioni accessibili a chiunque e trapiantabili ovunque".
È curioso, inoltre, che il saggio più meditato del volume - quello di Giuseppe Bedeschi su Bobbio - sia dedicato a un filosofo che certo aveva una forma mentis segnata da un illuminismo critico ma che, a parte certe "aperture" al comunismo (di cui non salutò la fine con entusiasmo) non sembrava ritenere la proprietà privata e il mercato due colonne portanti della "società libera". E un discorso, in parte analogo, vale per il bel saggio di Girolamo Cotroneo su Ellul e per quello di Giuseppe Giordano su Morin. Quando si esce dal generico e si pongono sul tappeto temi cruciali come il cristianesimo, lo Stato, la nazione, l'economia, il Welfare State, la rivoluzione, le libertà in quanto diverse dai diritti, il pluralismo, ci si trova di fronte a posizioni talmente diverse che solo la retorica della concordia discors e delle voci diverse che fanno l'armonia del coro riesce a giustificare. Si prenda il caso di Carlo Rosselli. Gli storici - tra i quali il compianto Domenico Settembrini e Giuseppe Bedeschi - lo avranno pure "un po' troppo frettolosamente" dato "per acquisito al filo o paracomunismo" ma è un fatto che il socialista "liberale", dando per certa la fine della borghesia, auspicava un partito unico del proletariato e fissava gli obiettivi di una rivoluzione italiana ed europea che dir massimalista era poco ("spartizione di tutta la terra, nazionalizzazione delle banche e di molte banche industriali, espropriazione degli stabili"). Nel libro a chi esalta la terza via socialdemocratica si contrappone chi, come Raimondo Cubeddu, sembra quasi rammaricarsi che Hayek non abbia compiuto l'ultimo passo in direzione del libertarismo di Murray Rothbard; a chi assimila, sulla scia di Orwell, il cristianesimo all'ideologia del Grande Fratello (Riccardo Campa) si contrappone chi termina il suo saggio facendo di Antonio Rosmini un antenato di Popper (Dario Antiseri). E si potrebbe continuare per un bel pezzo.
Questi rilievi critici, però, non rendono giustizia a un libro che si apre con uno splendido saggio su Vasilij Grossman scritto dal giovane Francesco Berti - autore del miglior libro su Gaetano Filangieri di questi anni - e contiene pagine illuminanti su Benedetto Croce (Corrado Ocone), su Guglielmo Ferrero (Giampietro Berti), su Rodolfo Mondolfo (Danilo Breschi) che non indulgono affatto ai luoghi comuni della vulgata buonista repubblicana ma ci consegnano ritratti realistici e problematici. Di Mondolfo, ad esempio, Breschi scrive, dissentendo dal Turati di Alessandro Orsini, che "restava all'interno della socialdemocrazia kautskiana che, dal punto di vista squisitamente teorico, costituiva la versione gradualista, pacifica e 'liberale' (nei metodi) di un disegno che restava comunque indirizzato all'abolizione del capitalismo, quale sistema fondato su proprietà privata ed economia di mercato aperta e in libera".
Una considerazione finale.
Non a tutti gli autori del libro è congeniale il vecchio Croce ma se dovessi dire cosa rappresenta per me l'Occidente non potrei farlo che con le parole conclusive del saggio di Ocone: per Croce, "uomo dell'Ottocento per formazione e vocazione, l'Occidente aveva le fattezze della ragione storica, del realismo politico e di un liberalismo costituzionale e borghese che era per lui l'evoluzione e il superamento del razionalismo astratto del giusnaturalismo che erano stati propri dei due secoli precedenti e in particolar modo di quello dei Lumi. L'Ottocento rappresentava per Croce, in altre parole, la compiuta realizzazione della modernità o, se si vuole, della civiltà europea".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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