L'orgoglio "Bianco" di Ellis non è un colore politico

Il titolo turba i fan del politically correct. L'autore ribatte con il contenuto. Scomodo ma schietto

L'orgoglio "Bianco" di Ellis non è un colore politico

È bastato il titolo del nuovo libro di Bret Easton Ellis per fare arrabbiare mezza America: White. Bianco. L'accusa (dei critici) è che Ellis dichiari apertamente di essere un White privileged male (primo titolo del libro). E non si scusi. In effetti Ellis non ci pensa nemmeno: ha spiegato che il titolo ha una derivazione letteraria, innanzitutto, da The White Album, cioè la sua raccolta di saggi preferita della sua scrittrice preferita, la grandissima Joan Didion. È anche vero che a 55 anni Ellis torna sulla scena, dieci anni dopo l'ultimo romanzo Imperial Bedrooms, per parlare delle divisioni di identità, di politica, di estetica, di età, di genere e di pensiero in una America che è già divisissima di suo. Quindi, con questa sua prima raccolta di saggi non porge l'altra guancia; e non la porge, questo è ciò che fa così infuriare, ai progressisti, ai liberal, ai benpensanti, ai grandi controllori delle corporation; specialmente le corporation a Hollywood, che «decidono quello che le persone possono dire e come devono esprimersi». La libertà di parola «è minacciata nella società di oggi».

Insomma White è appena uscito in America (Knopf) ed è già una provocazione, etichettata dai liberal come la grande bacchettata del più satirico e implacabile degli scrittori alla sinistra progressista; mentre, per la destra, Ellis sembra già diventato un mezzo idolo. Mezzo perché, sbirciando le interviste da lui rilasciate ai giornali anglosassoni, si capisce che non ami farsi tirare di qua e di là, anzi, White è anche un simbolo di «neutralità»: Ellis si dichiara «apolitico». E questo, nell'America divisa di Trump e del #metoo e del politicamente corretto nei campus, beh, è peggio di una dichiarazione di guerra. È tirarsi fuori dal campo, è dire che quella guerra non ha senso: ed è questo che ha fatto davvero arrabbiare i liberal, compreso il fidanzato «millennial e socialista» di Ellis, Todd, che ha 23 anni meno di lui. Nel libro Ellis parla anche di come la loro vita in un appartamento di Hollywood sia una sitcom e di come Todd non riesca a farsi una ragione di vivere nell'America di Trump, e nemmeno del fatto che Ellis non si schieri né a favore, né contro il Presidente. Ha spiegato al Times Literary Supplement: «Oggi mi vedono come un conservatore. Per un ultracinquantenne gay, che si è sempre considerato un liberal e ha scritto American Psycho, con Donald Trump che in pratica ha il ruolo del maligno, come è possibile?». Ecco la sua analisi sull'elezione di Trump: «Conoscevo circa il 55 per cento di persone che votavano Clinton, e il 45 per cento che votavano Trump. Il venti per cento di queste ultime avevano votato Obama... Era una questione di economia e creazione di posti di lavoro; il politicamente corretto veniva in secondo piano. Mia madre, le mie sorelle, alcuni amici delle superiori, il mio allenatore e la mia massaggiatrice hanno votato tutti Trump. I miei amici di Hollywood hanno votato tutti Clinton. E poi c'erano Todd e i suoi amici, tutti per Bernie Sanders. Credo che la stampa lo abbia così demonizzato che, se lo avessero descritto onestamente, avrebbe perso». Risultato di fronte alla vittoria: «Non ero sorpreso che avesse vinto. Anche se non ho votato per lui».

Per Ellis, la politica è una faccenda «ciclica». Bisogna aspettare il 2020... E intanto considerare che: «La mancanza di neutralità è la cosa che mi fa più paura»; «la generazione-X è disillusa, schiacciata fra i boomer e i millennial»; «non c'è un grande romanziere della generazione millennial: al massimo ci sono cose come Cat Person, che colgono per un minuto lo spirito del tempo»; «nessuno è più interessato ai romanzi, neanche gli scrittori» (non lui: «Amo i romanzi, e amo leggere romanzi», per esempio Edith Wharton, o George Saunders); «l'arte non può essere creata dalla democrazia, come sembra sui social media: un'arte approvata dal gruppo, è terrificante»; siamo schiavi del bisogno di sentirci «apprezzati», approvati, e quindi Twitter e Facebook diventano omologati «segnalatori di virtù» (la nostra, chissà quale, di solito tutta diversa dalla realtà), invece lui rivendica «la libertà di fregarsene» del giudizio altrui (anche sul suo libro) e non sopporta di sedersi a tavola e sentire che «tutti vanno d'accordo su tutto». E ha abbandonato Twitter. Poi c'è il #metoo che, «come tutti i movimenti progressisti quando portano avanti la resistenza contro qualcosa», sta diventando «tanto autoritario quanto ciò verso cui protesta». E ancora, per Ellis, il #metoo «è cominciato con una pulizia doverosa, ma (...) è sembrato diventare una rabbia generalizzata verso i vecchi uomini bianchi e un bisogno di purgarli, perché Hillary Clinton non era stata eletta».

A proposito di odio, stranamente Ellis ha un'opinione controcorrente. «La gente ha il terrore di essere odiata» ed è «terribile», perché al contrario l'odio garantisce la «longevità» allo scrittore; basti prendere ad esempio lui stesso («sono lo scrittore peggio recensito della mia generazione») o Jonathan Franzen («è veramente irritante»). Che dire, ancora? Ah sì, due parole su David Foster Wallace: «L'ho spesso considerato lo scrittore più sopravvalutato della nostra generazione, e anche il più pretenzioso e torturato (...).

La sincerità e l'onestà in cui sembrava trafficare mi sembrava uno schema, una specie di contraddizione»; però «mi piaceva, e credo fosse un genio». Perché per Bret Easton Ellis, a 55 anni, «lo stile è veramente tutto». Poi se gli altri lo attaccano...

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