«Le tre date dei concerti (3, 4, 11 maggio) di Zubin Mehta con la Filarmonica della Scala sono orami sold out», annuncia il sovrintende Alexander Pereira. Al suo fianco, siede questo gigante della direzione d'orchestra, indiano, 83 anni, di cui gli ultimi due trascorsi lottando contro una malattia. «Ah sì. Sold out?». È sorpreso Mehta, e scuote la testa. Nella vita non ha mai conosciuto la fatica di entrare e uscire da ruoli: sempre così, autentico e spontaneo. Tiene un profilo basso, a dispetto delle vette raggiunte. Ha condotto le più grandi orchestre del mondo, con lunghe permanenze a Los Angeles, New York, Firenze. A 25 anni era già sul podio dei Berliner e dei Wiener: «Dirigevo la Sinfonia in tre movimenti di Stravinskij. Per fortuna non era molto conosciuta. E io ne ero consapevole», per cui era sì nervoso ma non tremavano le gambe. Alla Scala, martedì 7 maggio dirigerà l'Orchestra dell'Accademia con Maurizio Pollini al pianoforte in una serata a sostegno di una Fondazione indiana per ragazze disabili. Sarà di nuovo a Milano il 17, e l'indomani inaugurerà il Festival Sacro di Pavia che tra l'altro ha in cartellone (25 e 26 maggio) anche Riccardo Muti. Infine, sarà lui a sdoganare Traviata in Arabia Saudita dirigendola alla testa dei complessi della Scala nell'estate 2020.
Mehta è persona di larghe vedute. Professa la religione parsi, ma per 11 anni ha studiato dai gesuiti, «In classe c'erano ragazzi di sette religioni diverse. Ho sempre vissuto la mia città come un luogo in cui le culture si incontrano». Per questo non si riconosce del tutto nell'India contemporanea. «Economicamente l'India va molto bene. Ma non sono completamente d'accordo con il Primo ministro: non fa abbastanza per risolvere il problema del Kashmir. Abbiamo 150 milioni di musulmani in India e lui non li protegge. Loro sono indiani come me, siamo un popolo. Un presidente dell'India era musulmano. Un capitano di cricket era musulmano. Ora vediamo cosa succede con le ultime elezioni», sospira Mehta che assieme a Pereira, il cui padre, ambasciatore, morì in un incidente aereo nell'indiana Pathankot, ha creato una Fondazione per assistere le bambine disabili. Il sovrintendente ricorda che negli anni ha raccolto un milione e 300mila euro per questo centro, e Mehta - che martedì dirigerà il concerto benefico -, non esita ad aggiungere, pur con garbo: «Guarda che ho raccolto altri soldi nel frattempo». Anzi. Ha visitato l'istituto sorto nel frattempo, «le ragazze si sono cucite i costumi e hanno ballato per noi. Sono sorde ma sentono il ritmo coi piedi».
Venerdì prossimo, prima di dirigere la Messa in do minore di Mozart K 427, converserà con il cardinale Ravasi sulla spiritualità. Mehta è di religione parsi, si tratta di una comunità di 80mila persone, seguaci di Zoroastro, «fuggirono dalla Persia per sottrarsi al dominio arabo. Per noi è molto importante l'atto del donare. Quando vado a Bombay vado sempre nel tempio perché in Europa e negli Usa non ci sono le nostre chiese. Pensi che un sacerdote vigila perché il fuoco non si spenga mai, è eterno. Sono cresciuto in una famiglia dove tutti erano molto religiosi. Anche mia figlia è parsi». La figlia è stata molto vicina a Mehta in questo periodo di malattia. Ora s'è ripreso, «ringrazio la medicina moderna che mi ha salvato da una situazione grave. Però sto proprio bene. Sono felice di essere qui.
Mi siete mancati tutti. L'ho detto anche all'orchestra».
Dall'alto dei suoi 83 anni, ammette che è la prima volta che dirige la Messa K 427 di Mozart, e per studiarla adeguatamente, «sono andato alla Biblioteca nazionale di Berlino per vedere l'autografo di Mozart. Ho tenuto un poco fra le mani quell'autografo. Ah! non ci credevo», sospira. E ci informa che «a Berlino hanno una collezione d'autografi incredibile». Gli brillano gli occhi.
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