La meritocrazia sconfitta dal "mainstream"

L'immagine perfetta per sintetizzare quello che sono diventati gli Oscar, è Glenn Close, all'ottava nomination e rimasta, per l'ennesima volta, a bocca asciutta

La meritocrazia sconfitta  dal "mainstream"

L'immagine perfetta per sintetizzare quello che sono diventati gli Oscar, è Glenn Close, all'ottava nomination e rimasta, per l'ennesima volta, a bocca asciutta. Le è stata preferita, come Miglior attrice non protagonista, Yuh-Jung Youn, la nonna del film Minari, che, sorpresa, ha confessato: «Come ho potuto vincere rispetto a Glenn Close?». Inutile farsi queste domande per un premio che è ormai «pappa e ciccia» tra quella che dovrebbe essere la meritocrazia (sempre meno) e il mainstream (sempre più). Ciò che conta è rispettare il mantra della militanza e dell'inclusione. Come su una nave da crociera, dove al self service trovi ogni tipo di pietanza, qui il menu di una serata soporifera (in quanti, stoici, hanno resistito alla diretta?) ha servito le prime volte di una miglior regista asiatica (Chloé Zhao, che lo ha diretto in maniera scolastica) e di una attrice coreana non protagonista (Yuh-Jung Youn), come del vincitore più anziano (lo straordinario 83enne Anthony Hopkins, miglior attore grazie a The Father) o di un polpo (il documentario Il mio amico in fondo al mare che ha clamorosamente sconfitto, ed è una vergogna, il meraviglioso Collective). Insomma, premi dati secondo una logica sconosciuta a chi paga il biglietto ma che da anni indirizza le scelte impopolari dell'Academy. Che la lobby degli attori influenzi pesantemente il circo delle statuette lo si è capito perfettamente anche domenica notte, quando il Miglior film, il super militante e favorito Nomadland, è stato annunciato prima dei premi ai miglior attori, che è un po' come premiare la nazionale campione del mondo prima del miglior giocatore del torneo. Inclusione. Qualcuno aveva previsto, anzi sognato, la vittoria di un quartetto di interpreti senza bianchi, invece è stato pareggio etnico, con il trionfo della McDormand (già tre statuette, che esagerazione, ma su questa nulla da dire) e quella di Hopkins (sacrosanta), che hanno pareggiato gli Oscar a Daniel Kaluuya (Judas and the Black Messiah) e Yuh-Jung Youn. A proposito di Hopkins, il suo successo, inatteso, ha mandato su tutte le furie i militanti afroamericani, che hanno riversato la loro rabbia sui social per aver «sottratto» la vittoria al defunto Chadwick Boseman; e poco importa se Hopkins sia tre spanne sopra.

Edizione indie, black and pink, da Manuale Cencelli, senza l'asso pigliatutto, a parte Netflix, sempre più centrale, che si porta a casa sette statuette. L'Italia? Non pervenuta, nonostante Pinocchio fosse, per costumi e trucco, decisamente migliore di Ma Rainey's Black Bottom. La meritocrazia, questa sconosciuta.

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