Micaela Ramazzotti che vende i suoi bimbi lascia impietriti gli spettatori

"Una famiglia" di Riso con la Ramazzotti affronta il tema delle adozioni ma in modo non convincente

Micaela Ramazzotti che vende i suoi bimbi lascia impietriti gli spettatori

La banalità del male di una coppia è l'aspetto più inquietante del secondo film italiano in concorso, Una famiglia, di Sebastiano Riso in uscita nelle sale il 28 settembre. L'opera seconda del regista siciliano è un claustrofobico film a tema, in questo caso la maternità surrogata. C'è una coppia apparentemente normale formata da Vincent, cinquantenne parigino (interpretato dal noto cantante e attore francese Patrick Bruel), e dalla segaligna Maria (Micaela Ramazzotti) di Ostia più giovane di una quindicina di anni. I due vivono senza farsi notare nella Capitale in un appartamento dai muri scrostati nascosto sotto la fatidica Tangenziale Est. A poco a poco scopriamo che i due portano avanti da anni un progetto lavorativo un po' speciale, quello di fare dei bambini per venderli alle coppie che non possono averli. Nella schematicità del film l'uomo è quello naturalmente più attento a tutti gli aspetti pratici e organizzativi mentre la donna si lascia trasportare dagli eventi forse perché molto innamorata. Ma gli eventi stessi, che sono tanti, forse troppi, da risultare anche ridicoli (ma il regista ci tiene a sottolineare di aver lavorato sulla base di intercettazioni di polizia), portano Maria a ribellarsi, a immaginare una «vera» gravidanza. Ecco dunque per Micaela Ramazzotti l'interpretazione di una nuova madre dolorosa con una recitazione leggermente survoltata (quante ne ha fatte, «cinque, sei?» le chiedono in conferenza stampa): «Sono ruoli di madre che ho scelto, voluto, rincorso - risponde con trasporto l'attrice che ieri ha accompagnato qui al festival il marito Paolo Virzì con il suo film Ella & John in concorso - più sono disgraziate e più le voglio fare, le voglio difendere. Mi sento di essere una loro portavoce, raccontare chi da solo non ci riesce. Interpreto madri sempre più disperate, questa è una madre bambina sempre con quel golfino di lana cotta rosa, per proteggersi, per tenere in grembo il bambino che non ha mai avuto e forse mai avrà».

Una famiglia affronta di petto il problema della maternità surrogata e delle adozioni illegali cercando però di non creare nello spettatore alcuna empatia né con personaggi della coppia né con quelli di chi vuole comprare i bambini. Che sono merce, da rimandare indietro se difettosa. Lo squallore regna dunque sovrano, sottolineato dalla fotografia livida, e anche il racconto un po' macchiettistico del tentativo di acquisto del bambino da parte di una coppia di omosessuali benestanti (Ennio Fantastichini e Sebastian Gimelli Morosini) che si lamentano della legge italiana, imbrigliata - dicono - dal Vaticano mentre vivono all'ombra del cupolone (sottile metafora...), invece che rendere partecipe lo spettatore di un problema ha l'effetto opposto di allontanarlo da esso. «Abbiamo trattato la coppia omosessuale con normalità - spiega il regista - perché per me non c'è alcuna differenza con le altre coppie e non solo perché sono omosessuale. Non volevo edulcorare nulla». A questo punto ovviamente si apre il discorso enorme sulla maternità e sulla paternità di chi non può avere figli su cui Micaela Ramazzotti ha però le idee ben chiare: «Non siamo qui per giudicare ma per guardare, non ci siamo messi su di un piedistallo. Però certo in Italia a differenza di altri paesi l'adozione è così difficile, con una legge vecchia. Andrebbero tolte un po' di restrizioni, perché, ad esempio, una coppia omosessuale o una donna sola o un uomo solo non possono adottare bambini? La legge non può essere uguale per tutti proprio perché le madri naturali sono tutte diverse. Vanno analizzati i casi uno per uno».

E proprio dai vari casi di cronaca di violazione dello stato di famiglia è partito il regista per scrivere la sua sceneggiatura insieme a Andrea Cedrola e Stefano Grasso: «Grazie ai produttori siamo entrati in contatto con il Procuratore Raffaella Capasso, che ha seguito alcuni casi, quando era alla procura di Santa Maria Capua Vetere. Abbiamo fatto lunghe chiacchierate e abbiamo avuto accesso anche a molte intercettazioni.

Le dinamiche sono comuni in tutti i casi, c'è sempre un medico come intermediario come quello interpretato nel film da Fortunato Cerlino, che dice alle ragazze di non abortire e di portare a termine la gravidanza per vendere il bambino».

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