Assomiglia al suo teatro. Ispido, poco accomodante, nient'affatto convenzionale. Ma è proprio la sua ruvida scorza, a rendere magnetico Marco Paolini. Così, a chi si lambicca per definire il suo teatro, lui ribatte, asciutto: «Io non lo definisco. Il compito di definire uno spettacolo spetta a chi lo guarda, non a chi lo fa». Coinvolgente come sempre, dunque, sarà definire Sani!, lo spettacolo con musiche dal vivo (di Saba Anglana e Lorenzo Manguzzi) con cui domani, sabato 6, l'affabulatorio e applauditissimo creatore de Il racconto del Vajont chiuderà le Orestiadi di Gibellina, nel lunare e incomparabile scenario del Cretto di Burri.
Partiamo dal titolo: «Sani!».
«Che non è l'aggettivo cui si potrebbe pensare, ma il saluto che, derivato dal salus latino, si scambiavano i miei avi della valle del Piave. A loro ciao pareva troppo confidenziale. Una volta la trovavo una parola arcaica; oggi, dopo il Covid, e nonostante ad alcuni appaia per questo inopportuna, mi sembra bellissima».
Di cosa parlerà, stavolta?
«Racconterò varie storie su momenti di crisi. Ogni crisi comporta un cambiamento: del quale magari nemmeno ti accorgi, ma che può anche essere positivo. Penso alla crisi che colpì me nel 1983, dopo il disastro di una serata condivisa con Carmelo Bene: a me che sognavo di fare l'intellettuale per pagarmi i debiti, quel flop cambiò in meglio tutta la vita. Penso alla crisi vissuta dal colonnello sovietico Stanislav Petrov, che nel 1983, intuendo che la segnalazione di un attacco missilistico americano era frutto di un errore, rifiutò di scatenare il contrattacco e, per questo, una guerra atomica. E penso anche alla crisi provocata dal Covid. Anche questa insegna la stessa cosa: o ti fai schiacciare dal crollo del mondo di prima, oppure trovi un punto di appoggio in un altro mondo. Che forse risulterà perfino migliore».
Alcuni definiscono il suo un «teatro di narrazione». Altri un «teatro civile».
«A me piace narrazione, perché suggerisce l'idea di un'evoluzione continua. Io non interpreto dei personaggi: propongo delle storie. E, attraverso le storie, dei contenuti. Più che un attore sono un mediatore».
Come sceglie i contenuti dei suoi spettacoli? Li cerca oppure sono loro, che vengono da lei?
«Dipende dalla pigrizia o dall'energia che ho in quel momento. Certo non sono l'attore che aspetta la scrittura. E detesto le commissioni, imposte magari dagli anniversari, tipo: Fammi qualcosa su Pasolini, che è il suo centenario. Una volta avuta l'idea ci lavoro moltissimo. Per lo spettacolo sul Vajont ho studiato due anni. Tre anni per Galileo, tre per Ustica; per Porto Marghera addirittura quattro. Raccolgo montagne di documenti, cartelle su cartelle. Una preparazione molto simile a quella del giornalismo d'inchiesta».
Che la espone a rischi simili? Capita che a qualcuno un suo spettacolo sia andato di traverso?
«Quando mi occupai di uranio impoverito o di Ustica ho avuto un bel giro di calabroni alle spalle. La Digos mi avvertì che non si trattava di attenzioni benevole. E che le persone che le nutrivano non erano controllabili. Il momento peggiore è stato quando hanno minacciato i miei genitori. Io li tranquillizzavo dicendo che si trattava di mitomani. Continuo a sperare che lo fossero davvero. Anche se devo dire che in Italia, più che la censura, ciò che pesa su questo tipo di lavoro è l'autocensura».
Mi sembra che grande importanza abbiano per lei anche i luoghi, in cui si esibisce.
«Sì: quando lavoro in tv. Perché il teatro si può fare ovunque, e può evocare qualsiasi luogo. La tv no: ha bisogno dell'immagine. Ecco allora che per Ausmerzen, sulle stragi naziste dei malati incurabili, andai in un ex ospedale psichiatrico. Per Antenati, che parlava di evoluzione ed ecologia, dentro la Grotta d'Antro in Friuli; per Vajont in cima all'omonima diga».
Una forma di teatro così particolare che tipo di pubblico attira?
«Ahimè: soprattutto miei coetanei. Non me ne lamento: sono tra i pochi fortunati che i teatri li riempiono.
Ma quando mi sono esibito all'ultimo concerto del Primo Maggio e ho visto tutti quei ragazzi, che invece agli spettacoli miei non vedo mai, ho ricevuto una bella botta ai denti. In fondo anche questo è un segno dei tempi: andare a teatro è una scelta culturale che pochi giovani fanno. Chi ha il cellulare pensa che il mondo sia già tutto là dentro».
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