È Time, con la copertina dedicata all'affascinante sessantunenne Kathryn Bigelow regista di Zero Dark Thirty, a sintetizzare efficacemente: «È il film più controverso dell'anno». E infatti tutti a chiedersi se la pellicola sulla caccia a Osama Bin Laden tifi più per Obama o per Bush. Se sia complice o meno della tortura mostrata nella lunga sequenza iniziale. Se sia «embedded» o solo frutto di un'ampia inchiesta dello sceneggiatore Mark Boal, trentanovenne compagno (forse ex) della regista. Considerazioni che quasi mai entrano nella straordinaria estetica del capolavoro della regista che nel 2010 con The Hurt Locker ha vinto l'Oscar - prima donna nella storia - come migliore regista. Da una parte: «È il film più moralmente discutibile, ottuso e sopravvalutato del 2012», ha cinguettato il romanziere Bret Easton Ellis che, prima di scusarsi su consiglio della propria mamma, aveva aggiunto: «Se la Bigelow fosse un uomo sarebbe considerato un autore di media statura ma siccome è una gran bella donna è molto sopravvalutata». Dall'altra le decine di premi e la candidatura a cinque Oscar tra cui quelli di peso, miglior film, attrice e sceneggiatura anche se l'esclusione per la miglior regia grida vendetta.
E, a proposito di Oscar, ecco una voce che vorrebbe sbarrare la strada alla regista: «Anche tu, come Leni Riefenstahl, sei una grande artista e se lei sarà per sempre sinonimo del regime nazista, tu verrai ricordata dai posteri come l'ancella della tortura» ha teorizzato con una lettera sul Guardian Naomi Wolf, la femminista che non piace alle femministe. E sullo stesso quotidiano il filosofo Slavoj Zizek ha rincarato la dose parlando di «normalizzazione della tortura» paragonandola ancora una volta a una rappresentazione «neutra» dell'Olocausto. Ma Zero Dark Thirty è molto più complesso d'un eclatante, quanto suggestivo, e infine assurdo paragone storico. Tanto che uno dei più famosi blogger del mondo, Andrew Sullivan, ha dovuto ammettere, dopo aver visto il film, che non si tratta di un'apologia della tortura e che nella pellicola - diversamente da quanto accusato dai senatori John McCain e Dianne Feinstein, un conservatore e una democratica a sorpresa insieme che forse non hanno mai visto la serie «24»- non c'è alcuna connessione diretta tra il suo uso e il ritrovamento del nascondiglio di Bin Laden.
Da ieri anche in Italia gli spettatori si potranno fare un'idea su un film che ti tiene prigioniero con una messa in scena, ancora una volta magistrale, dei meccanismi profondi di come l'America pensa e agisce. All'inizio sullo schermo nero - come in parte aveva scelto di fare Alejandro González Iñárritu nel suo corto nel film collettivo del 2002 11'09'01 - September 11 - le voci, strazianti, dei protagonisti degli attimi fatali dell'11 settembre 2001 alle Torri Gemelle. Da quel momento Osama Bin Laden diventa il nemico pubblico numero 1. Sulle sue orme tutta la Cia rappresentata qui quasi da una sola persona, una donna: Maya (interpretata dall'immensa Jessica Chastain). Dieci anni dopo, il 2 maggio 2011, Bin Laden viene «giustiziato» nel suo bunker pakistano di Abbottabad nell'ora giusta per le azioni militari (Zero Dark Thirty). Il buio iniziale finisce nella debole luce della carlinga di un aereo militare pronto a riportare in patria Maya. Che però piange. Non certo di gioia. Lacrime interrogative. «E ora?».
Basterebbe questo per rispondere alle assurde accuse sul film di complicità con i metodi usati dall'amministrazione Bush o finanche dell'uccisione di Bin Laden ordinata dal presidente Obama. Chiare anche le parole della Bigelow: «Il fatto di descrivere una cosa non significa sottoscriverla perché, se così fosse, nessun artista potrebbe ritrarre pratiche disumane, nessun autore scriverne, nessun filmmaker esplorarle». Perché come in un western - il genere su cui l'America ha (ri)generato il suo immaginario - lo sceriffo non molla finché non prende il ricercato, «dead or alive». Che poi si traduce quasi sempre con «morto» come ci mostra bene anche Tarantino con i suoi cacciatori di taglie in Django Unchained.
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