«Francamente, il western come genere non vuol dire niente. Cavali, cappelloni, stivali e così sia. È per questo che poi è entrato in crisi. A me invece interessava raccontare una storia di donne, una storia del passato che riguarda però anche il presente. La conquista del West fu per loro un'apocalisse: educate secondo i criteri dell'epoca vittoriana, si ritrovarono in un mondo selvaggio, ostile, sporco. Niente tea-party, né negozi, nessun corteggiamento, un tasso di mortalità infantile del 70 per cento. Che molte impazzissero, non deve sorprendere. È sorprendente che in tante abbiano resistito. Ecco, The Homesman, è un film onesto sulle donne che fecero l'America disfacendo se stesse».
Tommy Lee Jones è la star tanto attesa in concorso a Cannes e che non delude. Nove anni fa, il suo Le tre sepolture, di cui era anche protagonista, aveva vinto il premio per il migliore attore e la migliore sceneggiatura e lo aveva rivelato come regista. Adesso se ne ha la conferma, e la cosa non sorprende, considerata la sua storia: studente di letteratura a Harvard, dove era compagno di camera di Al Gore, esordiente in Love Story, dove la storia d'amore raccontata si dice fosse la sua.
The Homesman è un film superbo, per l'intreccio; i paesaggi, l'eterna orizzontalità di un panorama dove terra e cielo si confondono; la presenza di Hilary Swank come co-protagonista, una di quelle donne che alla durezza del West hanno saputo sopravvivere, ma alla fine soccomberanno alla malinconia di una condizione femminile che non lascia loro scampo. Non sono remissive, non vogliono essere semplici fattrici, non si rassegnano a dimenticare la propria educazione. Così si condannano alla solitudine.
«È un film americano, nel senso che racconta la storia del mio Paese, il suo tessuto sociale, il suo vocabolario visivo: paesaggi a perdita d'occhio, che non finiscono mai, dove si avanza sempre. Andare sempre avanti, conquistare, un imperativo religioso, il Manifest Destiny, il destino manifesto come idea nazionale, come missione».
È la storia di un viaggio. Tre giovani spose impazzite vengono affidate a miss Mary Bee Cuddy, single, indipendente, forte e generosa, perché dal Nebraska le riporti nello Iowa dove potranno essere curate, affidate alla moglie del locale pastore anglicano (un cameo di Meryl Streep che dà al suo personaggio una compassionevole e insieme stordita luminosità). Nel suo cammino, la ragazza incrocia quello di George Briggs, disertore e vagabondo. È stato sorpreso a occupare una casa che non era la sua, gli è stata messa una corda al collo, fissata poi intorno a un albero: quando il suo cavallo si muoverà, ne farà un impiccato, e così nessuno di quelli che lo hanno catturato potrà dire di averlo sulla coscienza.
Miss Mary lo salva e lo associa nella sua impresa. Sa che la strada è lunga, i pericoli molti, il destino che attende lei e le sue protette incerto. Un uomo, insomma, le sarà utile e capisce che Mr Briggs è uno che sa il fatto suo.
Nella storia non ci sono duelli alla pistola, eroi senza macchia, indiani coraggiosi o infidi, a seconda di come li si vuole rappresentare. C'è la durezza della condizione umana, dove si cerca il più possibile di pensare per sé e cavarsela da soli. Mary Bee è un'eccezione ed è per questo che Briggs alla fine porterà a termine il viaggio.
Tratto da un romanzo di Glendon Swarthout, il film lo segue fedelmente e la Swank risponde in pieno alla pagina scritta: «Aveva occhi da donna, ma il suo viso grande e quadrato aveva una mascella maschile». Nessuna meglio di lei poteva interpretare questa pioniera ostinata e però frustrata, troppo autoritaria per non intimorire e tenere lontani gli uomini. Al momento è la migliore attrice vista al Festival.
A Briggs, Tommy Lee Jones presta il suo volto intagliato e la souplesse di uno che non si fa illusioni: ne ha viste troppe, si accontenta di vivere alla giornata. Ma ha un suo senso dell'umorismo, un lato ancora infantile, gli piace cantare e ballare, è come un vecchio orso, addomesticabile, ma che non sopporta la catena.
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