Non buttiamo tutta la Storia. Nel passato stragi e orrori ma anche valori fondamentali

Si scredita ogni evento e personaggio storico, vedendo solo follie e assassini. E non i risultati, come la libertà...

Non buttiamo tutta la Storia. Nel passato stragi e orrori ma anche valori fondamentali

Un segno inequivocabile dell'odierna crisi è la perdita della dimensione storica nella coscienza dei cittadini e nel dibattito pubblico. Può sembrare che tale perdita riguardi solo la «repubblica delle lettere» e i programmi scolastici e, invece, a ben riflettere, si trova forse alle origini di quella decadenza dell'etica civile e di quel «mondo della sicurezza» - come lo chiamava il grande scrittore ebreo austriaco Stefan Zweig - in cui «tutto pareva duraturo e lo Stato medesimo appariva il garante supremo di tale continuità», in cui «i diritti da lui concessi ai cittadini erano garantiti dal parlamento, dalla rappresentanza del popolo liberamente eletta, e ogni dovere aveva i suoi precisi limiti».

Si ha l'impressione che il discredito della Storia, caratteristico dell'illuminismo francese, sia diventato il senso comune delle masse, registrando la convergenza dei nemici storici dello stato moderno e della secolarizzazione - dai cattolici non liberali ai nostalgici dell'antico regime, dalla sinistra anti-occidentalista agli anarchici di ogni tinta. Nel passato, non si trovano che guerre e conflitti di potere scatenati da ogni forma di governo: monarchie, repubbliche, democrazie hanno fatto a gara per dare lavoro alla grande falciatrice. È tempo di cambiare gli abiti del cuore e i costumi della mente e di abbattere (non solo metaforicamente) i monumenti e i simboli che nelle vie e nelle piazze ricordano i grandi assassini. «Nessun grand'uomo è davvero grande per il suo cameriere», si diceva un tempo: oggi si dice che nessun «padre della Patria» merita gli onori che continuano a essergli riservati giacché, a parte i loro vizi privati, tutti questi «individui cosmico-storici» (come li definiva il filosofo tedesco Hegel) hanno distrutto comunità floride e tranquille, hanno trasformato pacifici cittadini in carne da cannone, hanno sconvolto il mondo con le loro folli ambizioni.

«O Bourdaloue - scrive Voltaire nel Dizionario filosofico, rivolgendosi al predicatore di corte di Luigi XIV - voi avete composto, un famoso sermone sull'impurità, che d'altronde vale assai poco. Ma non avete mai detto nulla su questi assassini così numerosi e svariati, su queste rapine, su questi brigantaggi, su questo furore universale che devasta il mondo! Tutti i vizi di tutte le età e di tutti i paesi del globo riuniti assieme non eguaglieranno mai i peccati che provoca una sola campagna di guerra. Fino a che il capriccio di pochi uomini spingerà milioni di nostri fratelli a scannarsi lealmente fra di loro, quella parte del genere umano che si fa dell'eroismo un mestiere sarà la cosa più mostruosa di tutto il creato».

Non è casuale che al discredito della guerra il grande illuminista unisse una demistificazione altrettanto radicale della Patrie giacché per poco che sia estesa, vi si trovano spesso parecchi milioni di uomini che non possono dire d'aver una patria. E quanti dicono di averla, mentono spudoratamente. «In coscienza, un uomo d'affari ama veramente la patria? L'ufficiale e il soldato, che metterebbero a sacco il distretto dove sono accampati, se lo potessero, amano proprio teneramente tutti quei contadini che cercano di rovinare?». In sostanza, per Voltaire, patria è ubi bene vivimus e, pertanto, solo l'onesto utile individuale diventa il metro per giudicare la legittimità di uno Stato.

Queste idee che dominano incontrastate nell'odierno «illuminismo di massa» allontanano dallo studio della storia o, tutt'al più, lo intendono come «dovere della memoria», impegno a «non dimenticare le vittime», dimenticando il monito di Hannah Arendt: «Esaminare gli eventi solo dal punto di vista delle vittime significa fare dell'apologetica che ovviamente non ha nulla con la storia».

Davanti a uno stile di pensiero sempre più pervasivo, che ha rimosso «la centralità della dimensione militare per la definizione della cittadinanza e al tempo stesso della nazione» (Ernesto Galli della Loggia) vengono in mente, e contrario, le riflessioni che il più grande storico italiano della seconda metà del secolo scorso, Rosario Romeo, dedicava al pur apprezzato libro di Mario Silvestri, Isonzo 1917 (1965). Fu davvero, obiettava, la prima guerra mondiale una «inutile strage», per le ecatombi delle trincee, per gli esiti catastrofici che ne seguirono, per il baratro in cui precipitò il vecchio continente? «A questa stregua» però, «non solo la prima guerra mondiale ma le rivoluzioni nazionali del '48 e la stessa rivoluzione francese con le successive guerre napoleoniche, per non parlare delle guerre di religione o delle crociate, appariranno inutili massacri, compiuti per ideali di cui si può mostrare facilmente che non furono più alti di quelli che il Silvestri giudica «falsi» e «grotteschi» del 1914, o che quanto meno simboleggiavano mete assai più agevolmente raggiungibili per altra via». E Romeo concludeva: «In tal modo l'intera vicenda degli uomini può apparire assurda e grottesca: se a fermarci su questa strada non intervenisse il ricordo di quale somma di valori sta invece intrecciata a quel grottesco, e se non fosse doverosa una generale riserva metodica di fronte al patente anacronismo di giudizi come questi, nei quali ideali interessi e aspirazioni del nostro presente vengono assunti a criterio di valutazione di epoche e di uomini che non li conobbero e che si mossero invece sulla scia di altri interessi aspirazioni ed ideali».

Le comunità politiche sono «grandi famiglie»: se manca la comprensione profonda dell'opera degli antenati vengono meno i legami che, nel tempo

della rinuncia e del sacrificio, continuano a mantenerne i membri uniti: se non c'è più «convenienza», perché dovrebbe esserci lealtà nei confronti di una «casa comune» costruita da persone estranee, lontane e... nocive?

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