Meno male che c'è qualcuno pronto quantomeno a tirare fuori il passaporto e tentare la carta di un progetto internazionale. Qualche ambizioso regista che cerca di sfuggire ai cliché ormai consolidati della nostra cinematografia, stretta tra commedie un po' vacue e drammi dalle cosiddette due camere e cucina.
Così uno dei nostri registi con il dna più «internazionale», per formazione, per studi, per passioni, il palermitano Luca Guadagnino, quest'estate inizierà le riprese di Body Art dall'omonimo romanzo di Don DeLillo, una delle opere più insolite del grande scrittore newyorchese pubblicata in Italia da Einaudi. Per l'occasione si riunirà lo stesso gruppo che ha portato sul grande schermo un altro libro di DeLillo, Cosmopolis, con il produttore portoghese con base a Parigi, Paolo Branco, e con il regista di quell'omonimo film, David Cronenberg, nelle vesti di attore. Una scelta neanche troppo inedita visto che l'autore canadese comparirà addirittura per la ventisettesima volta in una pellicola stando ai minuziosi calcoli del sito BadTaste. A lui toccherà l'ingrato compito di interpretare un regista (cosa per lui abbastanza facile) che si suicida.
E su questo dovrà lavorarci un pochino anche se accadrà quasi subito, all'inizio della storia, a New York. Mentre troveremo la moglie, la «body artist» del titolo interpretata da Isabelle Huppert, tentare di metabolizzare l'accaduto in una grande casa sulla costa del Maine. La sua solitudine verrà spezzata da una strana presenza (l'incredibile attore Denis Lavant che finalmente in primavera vedremo nel capolavoro di Leos Carax Holy Motors), uno sconosciuto molto camaleontico che, tra le altre cose, parla con la voce del marito e pronuncia frasi da lei già sentite. Così tra sogno, allucinazioni ma anche realtà, la storia si svilupperà in un crescendo da giallo psicologico.
E magari questa sarà la volta buona in cui Luca Guadagnino potrà entrare dalla porta principale di Hollywood dove, dopo essere stato apprezzato - per la verità più che in patria - per il suo capolavoro Io sono l'amore sulle vicende di un'influente famiglia dell'alta borghesia lombarda con Tilda Swinton e con tanto di nomination agli Oscar per i costumi, ha in ballo un paio di progetti importanti tra cui un'altra trasposizione di peso, quella de Il grande nulla di James Ellroy (Mondadori). Sempre che il fatto di essere rappresentato da una delle più influenti agenzie statunitensi di attori e registi, la United Talent Agency, dia i suoi buoni frutti.
Perché non è certo un caso se quel miraggio, spesso irraggiungibile, venga chiamato proprio «sogno americano». E se lo è per gli americani stessi, figuriamoci per gli stranieri.
E infatti, alla fine, non sempre le cose vanno bene. Prendete uno come Gabriele Muccino per il quale inizialmente quel sogno s'è avverato con il successo di La ricerca della felicità e di Sette anime grazie all'amico Will Smith di cui ancora ieri su Twitter pubblicava le foto dell'ingresso della villa hollywoodiana.
Ora però il regista romano sta attraversando il peggiore degli incubi con gli incassi non esaltanti di Quello che so sull'amore che negli Stati Uniti s'è fermato a 13 milioni di dollari. Paradossalmente, in rapporto, la commedia è piaciuta molto più da noi con i suoi quasi 5 milioni di Euro. Perché la verità è che in America non basta prendere attori d'una certa risonanza come, per Muccino, Gerard Butler, Jessica Biel, Uma Thurman, Catherine Zeta-Jones e Dennis Quaid, per avere successo. Una formula per sfondare non esiste, né esistono ricette per candidarsi ai premi importanti tanto che è dal 1999 con La vita è bella di Benigni che l'Italia non vince un Oscar. Ne sa qualcosa anche Paolo Sorrentino che per il suo This Must Be the Place ha arruolato nientedimeno che una star del calibro di Sean Penn con la sua straordinaria interpretazione di Cheyenne, una rockstar decadente.
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