da Venezia
Inquiete tutte e sei le muse che definiscono il firmamento dell'arte che la Biennale di Venezia ha messo insieme con un'operazione ambiziosa: rileggere il proprio cammino attraverso i documenti raccolti nell'Archivio Storico. Dovendo fronteggiare il drammatico imprevisto, slittare le mostre di Architettura e Arte di un anno probabilmente riprogrammandone i contenuti, il progetto di riunire i sei direttori di sezione invitandoli così a rileggere il Novecento ha prodotto un risultato più che lusinghiero. Certo, non ci si può aspettare un'esibizione spettacolare e muscolosa come ci hanno abituato le ultime Biennali, bensì un interessante strumento didattico, ricco di materiali sorprendenti, alcuni veri e propri feticci, cui servirà un libro (in uscita nei prossimi mesi) per mettere su carta ciò che altrimenti risulterebbe volatile.
Le muse inquiete. La Biennale di Venezia di fronte alla storia così s'intitola la mostra allestita al Padiglione Centrale dei Giardini fino al 30 dicembre (la coordinatrice del progetto è Cecilia Alemani, cioè la direttrice dell'esposizione d'arte slittata al 2022), accenna alle rassegne dei primordi ma comincia l'analisi vera e propria con le edizioni sotto il fascismo. E qui, piaccia o non piaccia, si deve prendere atto che l'internazionalizzazione della Biennale comincia proprio allora quando il livello qualitativo dell'arte e della cultura italiana raggiungerà i livelli più alti nel XX secolo. Nel 1927 il nuovo segretario generale Antonio Maraini coinvolge nell'organizzazione la créme degli intellettuali ed espone per la prima volta in Italia pittori quali Vlaminck, Chagall, Dix, Nolde, Klee e Mondrian. Nel 1930 il conte Giuseppe Volpi di Misurata diventa presidente dell'ente e due anni dopo si inaugura la prima mostra del cinema al Lido. Certo, nella seconda parte degli anni '30 il regime si accorge del potenziale propagandistico dei film, i nazisti (che a differenza dei fascisti di arte non hanno mai capito nulla) si fanno vedere sempre più spesso a Venezia, ma nonostante l'estetica filogovernativa in quel periodo si vedono in mostra diversi capolavori come Scipione l'Africano di Gallone, Olympia di Leni Riefenstahl e Luciano Serra pilota di Alessandrini.
Finito il regime l'arte corre verso la libertà. Nel 1948 per la prima volta Picasso è in Biennale e Peggy Guggenheim espone la sua collezione al Padiglione greco disegnato da Carlo Scarpa. La danza, il teatro, la sperimentazione prendono piede, lo «sbarco» della Pop nel 1964 farà addirittura parlare di colonizzazione americana a Venezia. Col Sessantotto ci si accorge di quanto fosse stato dirompente il fenomeno sociale mentre, al contempo, la produzione artistica si disinteressa della componente estetica per salire sul carro della protesta. Un'edizione che si ricorderà per i tafferugli, gli scontri, le proteste e nessuna opera rilevante. Gli artisti, pur espressione della buona borghesia, si preoccupano di sostenere gli studenti e i manifestanti, la mostra del cinema si trasforma in un'assemblea permanente al grido di «No alla cultura dei padroni» e chi avrebbe voluto esporre dipinti o proiettare film viene additato, malmenato.
Altroché dissenso. Certe «cose» non si devono pestare. Se ne accorge persino uno dei più grandi presidenti, Carlo Ripa di Meana, socialista. Deciso a relazionare l'arte con la società e la politica, nel '74 dedica la Biennale al Cile dopo il colpo di Stato ottenendo il plauso di tutto l'antifascismo militante, tranne accorgersi nel '77 che si dovevano raccontare anche i dissidenti dell'Unione Sovietica, come il regista Paradzanov incarcerato per omosessualità e i tanti artisti messi a tacere. Apriti cielo: dimissioni dal Consiglio di Gregotti e Ronconi, vive proteste dal mondo intellettuale perché il comunismo non si tocca. Sostenuto da pochi amici tra cui Craxi, Martelli e i fratelli De Michelis, Ripa di Meana preferì l'anno dopo presentare una mostra più tranquilla sul rapporto tra arte, natura e ambiente. Si sa, in Italia, chi tocca il PCI e suoi eredi viene trattato da paria, ieri come oggi.
Tra le curiosità di questa atipica mostra, vera e propria miniera di informazioni e contenuti, va inclusa la sezione dove si enumerano gli scandali mediatici che la Biennale ha dovuto fronteggiare, fin dal 1895 con il quadro di Giacomo Grosso Supremo convegno ritenuto osceno al ciclo Made in Heaven esposto da Jeff Koons nel 1990, scene di sesso esplicito con la moglie Ilona Staller. Animalisti, censori, preti, il governo francese contro la pellicola anticolonialista di Gillo Pontecorvo, La battaglia di Algeri: i giornali hanno sempre avuto ottimi spunti per creare casi mediatici attorno a Venezia. Non se ne perdeva uno Pier Paolo Pasolini, convinto provocatore quanto si tratta di se stesso e fustigatore degli altri, si scaglia come il peggiore dei reazionari contro la performance di Gino De Dominicis (nel '72 «espose» in Biennale un ragazzo Down). Sarà stato PPP un grande intellettuale organico, ma come opinionista proprio non ci ha mai preso.
Chi invece aveva capito tutto era Carmelo Bene.
Nominato nel 1988 alla direzione del teatro, provocatoriamente non mette in scena nulla, dimostrando che il teatro è assenza, la ricerca di un teatro senza spettacolo, verso quella smaterializzazione dell'oggetto che oggi i curatori d'arte esaltano e che il geniale Carmelo aveva già ampiamente immaginato, anche se come gesto assoluto, estremo e individualista.
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