Allievo ed erede spirituale del più grande storico italiano del secondo Novecento, Guido Pescosolido da quarant'anni continua a ripercorrere ed ad approfondire le grande questioni della storia italiana moderna e contemporanea che furono al centro del lavoro di ricerca di Rosario Romeo. E lo fa in piena autonomia, non come un nano sulle spalle di un gigante, ma come uno studioso serio e coscienzioso, aperto al nuovo e sempre pronto a commisurare le sfide del nostro tempo a quelle del passato. Il suo recente libro, Nazione, sviluppo economico e questione meridionale in Italia, (Ed. Rubbettino), che raccoglie una nutrita serie di saggi scritti a partire dagli anni '90, rappresenta, a mio avviso, una lezione imprescindibile non solo per gli storici ma, altresì, per gli analisti dell'ideologia italiana e per i filosofi politici troppo spesso innamorati di teorie che non sottopongono alla prova, spesso deludente, dei fatti.
Mi limito a un esempio significativo, la parte dedicata alla politica liberistica seguita dal Cavour e dalla classe dirigente del nuovo Regno. È vero, si chiede Pescosolido, quanto sosteneva un altro grande storico un liberale controcorrente - come il compianto Giuseppe Are, che già negli anni '60 dell'Ottocento, l'Italia avrebbe dovuto adottare «una strategia protezionista per favorire un'industrializzazione concorrenziale con quella dei Paesi guida e che, di conseguenza, il periodo liberista vada considerato come inutilmente perso dal punto di vista dello sviluppo industriale»? Sulla scia delle ricerche di Romeo e delle sue, la risposta di Pescosolido è negativa. «Il favorevole andamento delle esportazioni agricole, che costituivano allora il grosso dell'intero export italiano, consentì di conseguire una serie di risultati della bilancia commerciale speciale che trova pochissimi riscontri in tutta la successiva storia degli scambi commerciali dell'Italia con l'estero. Ne derivarono stimoli energici all'incremento della produzione agricola, alla formazione di capitali e agli investimenti in infrastrutture, che costituirono i prerequisiti essenziali per lo sviluppo industriale, a prescindere dalle convinzioni e dagli intenti della classe dirigente che ne promosse la realizzazione». Il liberoscambismo, infatti, fu vantaggioso per la nostra agricoltura nella fase di prezzi crescenti tra gli anni quaranta e settanta. Lo stesso Mezzogiorno ne avrebbe beneficiato dal momento che la perdita di attività manifatturiere, come il lanificio, venne compensata dalla produzione agricola nel settore delle colture specializzate -olio vino, grumi, frutta secca- che fino al 1887 fece sì che il divario Nord/Sud non aumentasse. Avevano ragione allora i liberisti come Luigi Einaudi, Antonio De Viti De Marco, Gaetano Salvemini e i loro seguaci odierni, a criticare le politiche protezionistiche seguite dopo il 1887? No, giacché le ragioni avanzate dai sostenitori del protezionismo in primis Francesco Saverio Nitti potevano essere ignorate solo da chi aveva in mente una divisione del lavoro tra le due Italie, che riservava a quella meridionale un'economia fondata sull'agricoltura e sul turismo, pensando ingenuamente che tali attività avrebbero risolto il problema dell'occupazione di milioni di contadini privi di terra e d'istruzione; e da chi non prendeva in seria considerazione il problema dello Stato nazionale, che, piacesse o no, era diventato o stava diventando una grande potenza e sia pure l'ultima delle grandi potenze bisognosa di un forte apparato siderurgico e cantieristico. Nel commosso ritratto di Gaetano Salvemini, Pescosolido scrive a chiare lettere che «il punto debole della sua analisi dei rapporti tra Mezzogiorno e Stato nazionale fu proprio la sua sostanziale incomprensione della portata disastrosa che la mancata adozione del protezionismo, o peggio una sua abolizione agli inizi del Novecento, avrebbe avuto non solo sui latifondisti meridionali, ma sull'intera cerealicoltura nazionale, che era il settore più importante dell'economia italiana quanto a occupazione e uno dei maggiori quanto al reddito|| Cose queste che Nitti, diversamente da Salvemini, comprese, convertendosi proprio nei primi anni del secolo xx dal liberismo al protezionismo e all'industrialismo non solo per il Nord, ma anche per il Sud dell'Italia».
Si potrebbero fare non pochi altri esempi del sano problematicismo di Pescosolido dalla critica di quanti superficialmente hanno visto nelle cattedrali nel deserto il punto d'approdo dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno, alla messa in luce dell'impatto che, invece, esso ebbe in regioni che conoscevano la luce elettrica e l'acqua corrente solo in poche case. Negli anni compresi tra il 1965 e il 1973 si ebbe nel Sud una crescita reale «capace di indurre uno spostamento significativo nella configurazione occupazionale e produttiva del Mezzogiorno e anche un accorciamento delle distanze dal Nord». La crisi petrolifera e i partiti interruppero quel trend virtuoso, ma non ebbero certo un ruolo essenziale «quelli originari del Regno d'Italia, ma quelli assai più recenti dell'Italia repubblicana: dall'incapacità della classe politica e dirigente degli anni Sessanta-Settanta di perseguire i grandi obiettivi riformistici primo fra tutti la soluzione della questione meridionale alla radicalizzazione della lotta politica per opera delle ideologie estremistiche, dall'occupazione del potere e della società civile da parte di una partitocrazia degenere, al disastro di una finanza pubblica messa in ginocchio da corruzione e assistenzialismo, demagogico e clientelare».
Quello di Pescosolido è un libro controcorrente: in un periodo in cui lo Stato è considerato l'origine di ogni male e quello sabaudo la causa di tutte le nostre sventure, ci vuole un bel coraggio nello scrivere che «il ruolo dello Stato, nonostante manchevolezze e difetti innegabili», è stato nel suo
insieme «il fattore più importante nell'avvio del processo di industrializzazione in Italia» e uno strumento civilizzatore primario. Nella scuola di Rosario Romeo, come si vede, la retorica ideologica non trova alloggio.
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