Negli anni '70 si registrò nei Paesi di lingua tedesca lo spontaneo fiorire di una nuova drammaturgia confortata da nuovi talenti registici. Autori come Kroetz, Heiner Muller, Botho Strauss e un geniale Matthias Langhoff fecero corona attorno a Manfred Karge che, con un solo titolo, segnò un punto a suo favore con la creazione di Max Gericke. Dove il revival si sposa con rara perfezione agli anni bui del nazismo. Infatti per merito di una geniale intuizione dell'autore la protagonista sola in scena dall'inizio dello sconsolato monologo si sdoppia in un «io» diviso che farebbe la gioia del dottor Freud, perché il testo attribuisce all'interprete il compito di raccontare quegli anni terribili in una sola figura. Quella femminile, che per sopravvivere si è rifugiata in un ego maschile cui ha uniformato la sua esistenza. Ma non si tratta di uno spostamento psicologico derivante da un'innata propensione al sesso opposto. Perché la donna, per conformarsi alle esigenze produttive del Paese che, con gli uomini in guerra, non ha più bisogno di manodopera femminile, decide di spacciarsi per maschio per risolvere la propria spinosa questione economica. E a questo fine, dopo la triste scomparsa del marito, spaccia l'estinto per se stessa per assumerne la professione.
Conficcata in una poltrona che ha il compito di rimpicciolirla attribuendole una fragilità che non corrisponde al virile approccio che ha scelto di assumere, una straordinaria Elisabetta Pozzi ci conduce negli abissi dell'inconscio. Ovvero in una vera danza di morte.MAX GERICKE - Teatro Comunale, Brescia.
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