Quelle lunghe chiacchierate immersi nella pace del fiume

È tutto come allora. Il fiume; olmi, salici e ontani accalcati sugli argini, come una folla di curiosi, accorsa ad ammirare un prodigio del quale in paese non si smette di parlare

Quelle lunghe chiacchierate immersi nella pace del fiume

Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore Skira, un brano da Il canale dei cuori, quarto memoir di Giuseppe Sgarbi, finito da poco e che sarà in libreria dall’8 febbraio.

È tutto come allora. Il fiume; olmi, salici e ontani accalcati sugli argini, come una folla di curiosi, accorsa ad ammirare un prodigio del quale in paese non si smette di parlare; l'azzurro effervescente del cielo, così diverso da quello indolente e talvolta persino opprimente delle golene del Po. E il profumo. Profumo d'altri tempi; profumo di montagna, torrente ed erbe selvatiche; profumo di vita; di finestre che sbattono, di porte che si aprono e strade che non si sa dove portano; di giorni che vibrano fino a stordire e notti gravide di stelle, che diffondono il balsamo inebriante di desideri inesplorati. E la pace, naturalmente. Una pace che sgorga improvvisa subito dietro la curva, alle spalle del verde intenso del piccolo bosco che custodisce gelosamente polle, anse, meandri e rapide. Pace totale. Piena. Immacolata. Irreale, paragonata al bailamme che travagliava le nostre giornate: le tue a scuola, le mie in farmacia. Te lo ricordi, Bruno (Bruno Cavallini, fratello di Rina Cavallini Sgarbi, moglie dell'autore, ndr)? Ricordi il formicaio di teste, gli sguardi febbricitanti, la selva di mani alzate e il brulicare di domande che sgusciavano da tutte le parti come anguille? Ci pensavo qualche giorno fa, quando l'occhio mi è caduto sulla tua foto del salone: quella nella quale somigli così tanto a Vittorio che, se non ci sto attento, finisce che vi confondo. «Studenti e pazienti non sono poi così diversi», pensavo: stesso bisogno di attenzioni, di cure, di qualcuno che dica loro cosa fare e cosa non fare; stessa paura di compiti in classe ed esami; stesso tremare davanti allo spalancarsi del precipizio del futuro. Nemmeno noi eravamo tanto diversi: tu dietro la cattedra, io dietro al bancone; tu giacca e cravatta, io camice bianco; tu a decifrare la grafia incomprensibile dei lirici greci; io quella ancor più incomprensibile dei medici di qui. (Non oso pensare come fossero scritte le ricette nell'antichità!) Entrambi chiamati ad ascoltare suppliche, sciogliere dubbi, spiegare ragioni, dispensare consigli e medicamenti: frutto della chimica i miei, di millenni di pensiero i tuoi. I tuoi certo più belli; i miei spesso amari e indigesti. Inutili entrambi, però, a giudicare dal fatto che l'umanità vuole sempre fare di testa sua e rifiuta tanto la tua scienza quanto la mia.

Questa pace mette quasi a disagio. Forse per questo ci piaceva così tanto. (...) Mi guardo intorno, mentre il vento ne approfitta per scambiare qualche confidenza con le foglie, e l'acqua scivola via tra la fitta vegetazione d'argine, con fruscio delicato di seta su pelle. A volte si aggiunge un battito d'ali. Altre volte un brusio. Più raramente un cinguettio. I pesci no: al solito loro non fanno rumore. E nemmeno la strada, per fortuna.

È come se qualcuno avesse appeso il cartello «Non disturbare» alla porta del bosco, e le auto, insolitamente rispettose, abbassassero la voce, almeno fino alla doppia curva che scende verso la provinciale. E poi la città è talmente lontana che sembra non si sia ancora svegliata. Di quella che, sollevando severo le sopracciglia, chiamavi umanità, ancora nessuna traccia. Posto perfetto.

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