Nel 1926 il cinese Liang Shiqiu scrisse un breve trattato sulla «nobile arte dell'insulto» con lo scopo di aiutare tutti coloro i quali, tramite l'invettiva e l'improperio, avessero voluto avere qualche vantaggio in una disputa dialettica. L'intento era quello di arzigogolare senza che il senso dell'offesa fosse direttamente percepibile e, di conseguenza, far calare le difese del proprio interlocutore e circuirlo sottilmente, fino a fargli prendere consapevolezza dell'attacco velenoso solo alla fine. C'è però l'altra faccia della medaglia, forgiata nella schiettezza delle posizioni, nel linguaggio diretto e spietato, che è caratteristica di quella cultura greca e latina che ci ha lasciato opere di immenso valore ma anche frammenti in cui il sottile sarcasmo lascia spazio all'ingiuria e all'offesa pesante.
L'operazione del libro Come insultavano gli antichi. Dire le parolacce in greco e latino (Il Melangolo, pagg. 106, euro 8) coglie proprio questo aspetto. Con il testo originale a fronte, il lettore potrà infatti godere di un raccolta di epiteti ricavata dai più grandi autori greci e latini tra cui Alceo, Catullo, Cicerone, Eraclito, Giovenale, Omero, Orazio, Seneca, Teognide, Terenzio.
Grandi dell'antichità che utilizzano l'insulto raccontandolo non come «nobile arte» o tanto meno marchingegno lessicale in grado di farci perdere in circonlocuzioni complicate ma come offesa diretta, spesso greve e perentoria. Non c'è alcuna ironia o dissimulazione ma l'assalto esplode come un fulmineo attacco d'ira cui, sin subito, viene data una valvola di sfogo verbale. E il lettore si divertirà a tener il passo di questi insulti che non esauriscono l'intero campionario. E pur rappresentando solo una piccola parte, si rivelano importanti anche grazie al fatto che il curatore (Neleo Di Scepsi), alla fine del libro, separa in uno specifico schema gli insulti dei latini da quelli dei greci. Così scopriamo che i primi si intrattenevano con offese del tipo: baldracca, cagone, schifoso, frocio, racchiona, piscione, cazzone, checca, invertito, castrato. Mentre i greci preferivano: pervertito, panzone, pallone gonfiato, mangia merda, culona, pappone, cornificatrice.
Ciò accadeva perché lo scopo non era sopravanzare nello scontro dialettico l'avversario ma metterlo a tappeto costringendolo sin da subito al silenzio e, dunque, lo strumento non poteva che essere quanto più volgare possibile. Chi scriveva commedie e si occupava di far ridere le persone come Plauto («Che hai da guardare, imbecille? Insomma cosa vuoi? Anzi, chi cazzo sei?») o Aristofane («Tu, testa calda, culo rasato, perché ti presenti qui con quella barba da scimmia a fare l'eunuco?») offre molto materiale. Ma in questo esercizio di non-stile non vi fu politico, poeta o filosofo decantato nei manuali scolastici che non abbia fatto ricorso all'invettiva. A tal proposito, viene ricordato che già Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli aveva ammoniti sul fatto che tendiamo a idealizzare oltremisura i classici, «che il giovane si porta dietro nella vita, come ricompensa del suo ammaestramento liceale». In realtà, qui Nietzsche si sbaglia di grosso.
Chiunque abbia frequentato il liceo sa bene che si sbirciava nelle antologie alla ricerca di questo «tesoro» nascosto fatto di frammenti licenziosi.Ma tutto ciò era possibile come si ricorda nell'introduzione perché nell'antichità chi scriveva non era sottoposto a censura (almeno nel senso moderno) e non vigeva la mannaia del politicamente corretto. Per fortuna.
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