Non convenzionale nemmeno nelle autobiografie, Piera Degli Esposti, scomparsa ieri a Roma a 83 anni dopo una malattia per la quale era ricoverata già dal 1º giugno al Santo Spirito. Lei, pilastro del teatro, ma anche di cinema e tv, aveva lo scorso anno deciso di raccontarsi con un personaggio di commedia nera: in L'estate di Piera, uscito per Rizzoli nel 2020 e cofirmato con Giampaolo Simi, la sua omonima vuol mettere in scena Riccardo III al femminile (fu davvero un suo desiderio, per molto tempo). Una sfida in anticipo sui tempi, come molte altre così sue: ribaltare le regole del teatro, del bel vivere sereno e borghese, dello «spettatore addormentato». A rileggere quell'esercizio di autofiction, ultima di tante sue gioiose messe a nudo - inclusa quella dei suoi piedi, nudi e spensierati, per cui era diventata «la regina scalza» - si ritrovano le verità sentimentali che divennero talenti da ribalta: immaginazione galoppante, smodato coraggio, testardaggine acuta, ironia inarrestabile, figlia cara all'intelligenza.
Per la leggendaria Piera, bolognese, classe 1938, queste verità sono state il tesoro più grande, il regalo che ha fatto ad Antonio Calenda forse prima che agli altri registi innumerevoli con i quali ha lavorato. Dal 1965, già matta e disperatissima per il palcoscenico, affrontò con lui, Nando Gazzolo e Gigi Proietti al Teatro 101 di Roma i testi di Boris Vian, Günter Grass, Jean Genet, Ernst Toller, dimostrandosi da subito una ribelle sì, ma di eccezionale cultura. Una cultura intrisa di complessità e soltanto ben mascherata dai gesti eccentrici e provocatori che l'hanno resa cara anche al grande pubblico. Perché seppe da subito rendersi riconoscibilissima, Piera, dando una chance anche alla malattia che l'ha seguita come un'ombra, fin da bambina, quando ebbe il primo pneumotorace: «Quando per la prima volta ho sentito quel dolore ai polmoni così lancinante, ho avuto paura. Ero spaventata, credevo di morire». I polmoni sono sempre stati un suo lato debole, potevano diventare invalidanti e invece proprio quella voce già sottile che avrebbe potuto perdere è diventata uno dei tanti fattori che l'hanno resa unica.
Calenda alla fine la scritturò allo Stabile dell'Aquila, in cui rimase fino alla metà degli anni Settanta, e a quel punto fu lanciata: dopo di lui la diresse Giancarlo Cobelli in D'Annunzio, Goldoni e Shakespeare, poi la trovò e la formò Ida Bassignano e poi arrivò Tino Schirinzi. Era per un'opera di Alfred De Musset, Con l'amore non si scherza, che si incontrarono e il loro legame sentimentale e professionale durò dieci anni. Tutto, tentarono, per il teatro, compresa un'avventura di produzione, dalla quale nacquero Molly cara, Majakovskij, Trappole. Il progetto fallì, perché per andare in scena come si vuole i soldi non c'erano, allora come oggi. E però a Piera toccò l'incontro con Joyce e l'Ulisse e lei nel 1978 si incarnò magicamente in quella Molly Bloom che forse dentro di sé non lasciò mai più.
Seguirono gli anni dell'avanguardia con Carmelo Bene con il quale coltivò una rarissima «sorellanza», come scrisse la critica, e approdò anche al cinema, con Pier Paolo Pasolini, Lina Wertmüller, Giuseppe Tornatore, i fratelli Taviani, Nanni Moretti, Marco Bellocchio, Paolo Sorrentino. Sul piccolo schermo aveva esordito nel 1966 con Il conte di Montecristo di Edmo Fenoglio e tra i nomi che la diressero ci sono Ugo Gregoretti con Il circolo Pickwick, Salvatore Nocita per I promessi sposi, Riccardo Milani per Le sorelle Fontana, Giacomo Campiotti per Ognuno è perfetto. Fu anche regista di opere liriche, mettendo in scena Lodoletta di Mascagni, La voce umana di Poulenc, Notte di un nevrastenico di Rota e una incestuosa e originale Mirra di Alaleona nel 2002 a Jesi.
Non aveva bisogno di abbattere la quarta parete, non è mai esistita, per Piera Degli Esposti: la commedia era sul palco come nella vita quell'abbraccio di verità e leggerezza intelligente che dicevamo. Tanto che Eduardo De Filippo coniò per lei l'espressione «'o verbo nuovo». Tanto che quando dovette scegliere i testi per esibirsi al Teatro Valle occupato recuperò il suo repertorio di Achille Campanile, mica qualche noioso autore di protesta ombelicale. Tanto che la firma del film sulla sua vita - Storia di Piera, tratto dalla biografia-intervista con Dacia Maraini - toccò, nel 1983, all'intoccabile indipendenza di Marco Ferreri (per il quale Maraini e Degli Esposti scrissero poi la sceneggiatura di Il futuro è donna): Piera è Isabelle Huppert, sua madre Hanna Schygulla, suo padre Marcello Mastroianni.
Ma la vera protagonista è la follia profonda di genitori ingenuamente instabili e la vera famiglia è l'arte, che l'aiutò a trovare un possibile equilibrio e la trasformò in indimenticabile «Drago», il cognome scelto per la Piera immaginaria descritta nel noir inventato con Simi.
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