Con il film "Roma", Alfonso Cuaron sbarca nuovamente in laguna, a cinque anni di distanza da "Gravity" (vincitore di sette Oscar).
Siamo di fronte a un'opera in buona parte autobiografica, il ritratto vivido e intimo di vicende che appartengono ai ricordi d'infanzia del regista.
Ambientato a Città del Messico nel 1970, (precisamente nel quartiere Roma), il film racconta di Cleo (Yalitza Aparicio), una giovane che lavora come domestica presso una famiglia altoborghese. Ingenua e alle prime esperienze sessuali, resta incinta e viene abbandonata dal fidanzato. Nello stesso periodo anche Sofia (Mariana De Tavira), la padrona di casa e mamma di quattro piccoli che Cleo ama come fossero suoi, viene lasciata dal marito. Pur appartenendo a ceti sociali diversi, le due donne si ritrovano unite in una famiglia sui generis, tutta sulle spalle delle figure femminili. Sullo sfondo, intanto, la città è agitata da disordini politici che sfoceranno nella violenza.
Il film, le cui riprese sono durate centodieci giorni, è pieno di simboli e di dettagli significativi e ha seguito una lavorazione non convenzionale: la sceneggiatura è stata rivelata strada facendo, in modo che le formidabili interpreti, (che attrici non sono, tranne la De Tavira), si comportassero con la massima naturalezza possibile di fronte ad accadimenti ora comuni ora straordinari, proprio come quelli forniti dalla vita. Tra pavimenti da pulire, ninne nanne, uomini fuggitivi, pomeriggi di gioco, panni stesi al sole e trenini festosi, c'è posto anche per diverse tragedie che solo in alcuni casi rimangono sfiorate.
Struggente e talvolta straziante, "Roma" regala scene dalla composizione perfetta e lo fa in un bianco e nero luminoso e digitale che accorcia la distanza tra passato e presente. La macchina da presa s'intromette il meno possibile, lasciando che lo schermo si riempia di lunghi piani sequenza in cui non c'è traccia dell'incertezza visiva caratteristica dei ricordi. I virtuosismi si sprecano ma garantiscono un risultato, in termini di impatto estetico, davvero encomiabile.
Nell'Amarcord di Cuaron c'è spazio non soltanto per la sua bambinaia indigena, ma anche per esplorare le differenze sociali e i conflitti politici del Messico di quegli anni.
Le riprese sono state ambientate in luoghi in tutto e per tutto fedeli alla memoria del regista: l'abitazione è la replica della sua casa d'infanzia, il 70% del mobilio e delle suppellettili è originale.
Cuaron durante la conferenza stampa del film ha difeso con forza il contributo produttivo di Netflix, affermando che una pellicola in bianco e nero, in lingua indigena e di genere drammatico avrebbe avuto molte difficoltà di distribuzione e che, alla fine, ogni buon film in grado di durare nel tempo finisce con l'essere fruito in formato televisivo.
Di sicuro "Roma" è un'opera che si candida, fin d'ora e a pieno merito, tra i papabili vincitori del Leone d'Oro.
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