"Il romanzo d'avanguardia? Una contraddizione in termini"

Per il saggista "non si può disprezzare l'atto di raccontare e insieme fare letteratura". Se non dedicandosi alla poesia

"Il romanzo d'avanguardia? Una contraddizione in termini"

Saggista e polemista, Alfonso Berardinelli è uno degli autori che più si sono impegnati a demolire la presunta scientificità di una critica che, negli anni Settanta, aveva la pretesa di indossare il camice bianco. Se si pensa che dal 1985 al 1993 realizzò in totale libertà, insieme a Piergiorgio Bellocchio, quella particolarissima rivista che fu Diario e che usciva senza cadenza fissa, ma solo quando i due che la realizzavano avevano qualcosa su cui ragionare e quindi da esprimere, si capisce quanto l'antagonismo di Berardinelli sia soprattutto un forma di fedeltà al proprio individualismo idiosincratico. La sua opera saggistica è raccolta in diversi volumi, dei quali ricordiamo almeno Il critico senza mestiere (Il Saggiatore, 1983), La poesia verso la prosa (Bollati Boringhieri, 1994), Casi critici. Dal postmoderno alla mutazione (Quodlibet, 2007).

Da una parte il libro Non incoraggiate il romanzo. Sulla narrativa italiana (Marsilio, 2011), dall'altra Discorso sul romanzo moderno. Da Cervantes al Novecento (Carocci, 2016). Da una parte il mercato editoriale e alcuni romanzieri contemporanei, dall'altra lo studio della tradizione di un genere letterario. Dove individua e colloca la frattura e che cosa ha significato per la cultura dell'Italia?

«In Non incoraggiate il romanzo ho raccolto saggi e articoli sul Novecento italiano: il problema che continuamente mi si era ripresentato era la consistenza della tradizione italiana del romanzo, la sua fragile continuità, una chiara resistenza della prosa italiana a funzionare come veicolo di costruzioni romanzesche. Non incoraggiavo il romanzo perché notavo che sia in molti autori maggiori, sia in scrittori assai mediocri, l'idea di scrivere romanzi era un'ambizione sbagliata. In Italia mi pare (ed è un'ovvietà) che la prosa d'arte o saggistica e il racconto abbiano dato migliori frutti che non il romanzo. Quelli di Gadda sono romanzi? Mi sembrano piuttosto prosa d'arte per così dire impazzita, violentemente espressionistica. Si sente sempre la voce dell'autore. È per questo che Gianfranco Contini, poco interessato al romanzo, è stato un grande estimatore e valorizzatore di Gadda, a causa della lingua, non perché ci fossero vere costruzioni narrative e memorabili personaggi. Il Discorso sul romanzo moderno è nato invece come un discorso unitario, in cui ho cercato di rintracciare i fondamenti ineliminabili del romanzo moderno occidentale, da Cervantes a Svevo. Questo in polemica con l'idea novecentesca di un superamento del romanzo classico con le forme del romanzo sperimentale e d'avanguardia. Da un lato il romanzo è stato sempre un genere sperimentale. Dall'altro credo che dire romanzo d'avanguardia sia una specie di contraddizione in termini. Non si può disprezzare l'atto di raccontare e insieme scrivere romanzi. Mi sembra una follia. Meglio cambiare genere e fare il poeta».

In Poesia non poesia (Einaudi, 2008) scrive che «oggi i veri nemici della poesia sono diventati i poeti». Una forma di autoreferenzialità distruttiva?

«Uno dei maggiori guai, forse il maggiore, della poesia italiana contemporanea è che non ci sono lettori. I lettori della poesia sono, nella migliore delle ipotesi, altri poeti. Neppure i critici se ne interessano molto. È raro che nelle università gli stessi professori di letteratura contemporanea facciano corsi sulla poesia successiva a Montale, Zanzotto, Giudici. Questa mancanza sia di pubblico che di mercato ha quasi distrutto il genere poesia. Quando si può fare di tutto, si finisce per non combinare niente. Nessuno ti legge e nessuno ti giudica. C'è poi il vecchio pregiudizio secondo cui la lingua della poesia è una lingua speciale del tutto diversa dalla lingua di comunicazione e d'uso. Anche questo ha fatto disastri. Molta poesia non è incomprensibile perché troppo densa o profonda, o audacemente sperimentale, ma perché l'autore non sa che cosa fa. È lui il primo a non leggere, a non rileggere, a non leggersi. Questo non significa che non ci siano in giro dieci, venti poeti buoni. Ma l'enorme massa di tutti gli altri e l'incompetenza dei critici, disposti a studiare qualunque cosa, ma ignari di che cosa sia l'atto di leggere, creano intorno ai non molti poeti buoni una folla di autori del tutto irreali. Alcuni di questi godono di ottima fama. Il che dimostra che la situazione è praticamente irrimediabile».

A chi si rivolge oggi la critica, quale funzione di mediazione svolge (se ancora la svolge)?

«Sta diventando molto chiaro che la critica non svolge più una funzione di mediazione. I narratori guardano agli editori, sono piuttosto indifferenti ai critici. Gli basta vendere e essere premiati. Qualcuno di loro, più raffinato o più ambizioso, dopo i quaranta o i cinquant'anni, diventa malinconico, e si accorge che gli piacerebbe assai leggere qualche bel saggio critico su di sé. Ma è un desiderio un po' senile, la voglia di un di più, che fino a quel momento interessava poco. In una letteratura in cui i romanzieri sono alcune centinaia, nessun critico ce la fa a leggere tutto e quindi ad essere un vero conoscitore. Molto spesso si nota che si parla di letteratura attuale come se si trattasse non più di letteratura che ha a che fare qualcosa con la tradizione letteraria, ma di un fenomeno culturale del tutto e interamente attuale, equivalente ad altri innumerevoli prodotti della cultura di massa. Se devo leggere romanzi contemporanei come se vedessi dei telefilm, confesso che mi diverto più a vedere dei telefilm (purtroppo spesso pessimi anche quelli). È lo stesso linguaggio della critica, che si è formato sui classici antichi e moderni, che oggi non è più adeguato all'oggetto letteratura di oggi. Anche senza volerlo quel linguaggio nobilita, sublima cose che andrebbero descritte in poche righe e con una più schietta semplicità».

Chi è oggi, parafrasando il titolo di un suo libro, «il pubblico della saggistica»?

«Sulla saggistica ho nutrito una specie di ottimismo epocale, partendo dal fatto che molto spesso, non solo in Italia, ma in tutta Europa, continente intellettualissimo per tradizione, i libri di saggistica raggiungevano una qualità più alta che non quelli di narrativa. Quanto ai lettori, la loro quantità è deludente. Oggi leggere un libro significa per quasi tutti leggere un romanzo, quale che sia. A questo punto il mio ottimismo epocale è piuttosto in declino. Preferisco la saggistica, la leggo più volentieri, ma questo riguarda le mie particolari, personali preferenze di autore».

Qualche tempo fa, sulle pagine del Foglio, affermava: «Calvino? Un perfetto scrittore minore. Pasolini? Un grande scrittore mancato». Su questi autori è tornato spesso a ragionare anche in diversi suoi libri, distinguendo due opposti modi di osservare la realtà e di stare al mondo, ma anche due modelli letterari per le generazioni successive. Ma questi modelli che cosa hanno rappresentato e che cosa rappresentano, di positivo e negativo, ancora oggi?

«Non so in generale che cosa rappresentino. Fino a dieci o venti anni fa erano più importanti di oggi. Ora mi sembra che gli autori più giovani siano così occupati da se stessi e dall'affollato contesto in cui sono costretti a esprimersi, che non hanno molto tempo per pensare a Calvino e Pasolini, entrambi oggi inimitabili. Per me sono stati importantissimi perché erano i due fratelli rivali, i due modelli opposti di scrittore-intellettuale della generazione precedente alla mia. Mi sono divertito molto a riflettere su di loro. Tuttora ci penso. Tra l'altro, sono l'ultimo caso italiano di una lunghissima tradizione.

La nostra letteratura è stata sorprendentemente dicotomica, divisa in figure contrastanti e alternative: Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso, Machiavelli e Guicciardini, Goldoni e Alfieri, Manzoni e Leopardi, Croce e Gentile, Pascoli e d'Annunzio, Pirandello e Svevo, Gadda e Moravia, e infine Pasolini e Calvino (ma c'è anche la coppia Zanzotto e Giudici). Concordo con l'opinione di Giorgio Ficara, secondo cui la letteratura italiana di oggi non ha molto a che fare con la letteratura italiana dei cinque secoli precedenti e neppure con quella del Novecento».

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