Chissà se si farà mai un film da La ruga sulla fronte, il romanzo di Scalfari ritagliato sulle vicende - industriali, familiari, esistenziali - di Gianni Agnelli, sia pure celato dietro il nome di Andrea Grammonte. La sceneggiatura esiste, neanche brutta, ma il terreno è minato, specie alla luce degli ultimi eventi legati all'eredità del patriarca della Fiat. E tuttavia c'è qualcosa di più cinematografico del racconto di una certa borghesia manifatturiera di tradizione piemontese o lombarda, col suo mix di regalità e meschinità, i suoi riti esclusivi di autoconservazione, i privilegi sfacciati, dentro una logica dinastica intoccabile e lontana?
Non c'è. Sarà anche per questo che, prendendosi tutte le libertà del caso, il regista Luca Guadagnino, classe 1971, siciliano ma cresciuto in Etiopia, noto per aver diretto Melissa P, ha voluto misurarsi con l'ambizioso racconto di una «dynasty» tutta milanese. «Il cinema è un campo di battaglia», teorizzava Samuel Fuller, uno dei registi più amati da Guadagnino (insieme a Jonathan Demme). Anche la famiglia può esserlo, specie se ci si chiama Recchi e si appartiene a una schiatta di ricchi e potenti imprenditori del ramo tessile, con migliaia di dipendenti, rapporti con la politica e una dimora lussuosa nel cuore di Milano, quella Villa Necchi Campiglio costruita negli anni Trenta dall'architetto Piero Portaluppi secondo i criteri di un severo razionalismo spruzzato di déco.
Recchi è un nome di fantasia, ma è difficile non pensare alle grandi famiglie impreditoriali italiane: gli Agnelli, i Moratti, i Marzotto, gli Olivetti, i Rizzoli... Lo sceneggiatore e scrittore Ivan Cotroneo, che firma il copione con Guadagnino, Barbara Alberti e Walter Fasano, si sottrae al gioco del «chi è chi?», ma certe coincidenze, magari involontarie, risaltano all'occhio nell'invenzione cine-romanzesca. Ad esempio, la ribelle Emma ha qualcosa, nello sguardo e nel fisico, di Margherita Agnelli; uno dei figli, il più estraneo alle ferree logiche aziendali, alla retorica del circolo canottieri, si chiama Edoardo e guarda caso morirà; un'altra figlia, insofferente, sessualmente inquieta, insegue il proprio talento artistico; il patriarca Edoardo senior, ormai a un passo dalla morte ma fermo nell'imporre la successione, teorizza che «la fortuna della nostra famiglia è costruita sulla fabbrica» e che «i destini della fabbrica hanno sempre coinciso con quelli del Paese».
«Io sono l'amore», coprodotto e distribuito dalla Mikado, debutta alla Mostra di Venezia nella sezione Orizzonti, per volare subito dopo al Festival di Toronto in cerca di vendite e visibilità internazionali. È probabile che senza Tilda Swinton, premio Oscar 2008 per Michael Clayton, il film non si sarebbe mai fatto. Confidando nel progetto piuttosto inusuale per il nostro cinema, l'attrice britannica ha messo amicizia, energie, fiducia, al punto da recitare in italiano, presa diretta, circondata da un solido gruppo d'interpreti, nel quale spiccano i giovani Edoardo Gabbriellini, Alba Rohrwacher, Diane Fleri, Flavio Parenti, il teatrante prestato al cinema Pippo Delbono, il veterano Gabriele Ferzetti, la rediviva Marisa Berenson.
La Swinton fa Emma, una russa di modesti natali ma di sfolgorante bellezza, sposata al rampollo Tancredi. Donna elegante, madre impeccabile di tre figli, Edoardo, Gianluca ed Elisabetta, ma moglie infelice, quasi in ostaggio di una Milano mai così suggestiva sotto la neve.
Nello scrivere questo «melodramma sociale» è possibile che Guadagnino abbia pensato ai Buddenbrook di Thomas Mann, a L'età dell'innocenza di Edith Wharton, perfino al film Festen di Thomas Vintenberg. Un mondo esclusivo fatto di arredi caldi e gesti raggelati, di destini già scritti, di sfide industriali, di potere maschile: è qui che irrompe all'improvviso la passione amorosa, scombinando i piani, rimescolando le carte, producendo lo scandalo. Scandalosa, infatti, è la relazione tra Emma e il cuoco Antonio: «Due creature inorganiche agli universi in cui gravitano», li definisce Guadagnino. «Lei s'è mimetizzata in un contesto che non le appartiene; lui è uno chef-artista, un outsider, un creatore, un uomo legato alla natura». E tuttavia non un film sul tradimento, ancor meno di denuncia o politico, bensì «una storia sulla forza inesorabile dell'amore che sbriciola i valori di una certa borghesia capitalista esangue, rassegnata a vendere il marchio di famiglia e licenziare, dedita alla negazione degli impulsi più vitali e sovversivi».
Solo le donne, alla fine, sembrano salvarsi, due su quattro, a causa delle loro scelte d'amore: cioè Emma e la figlia. «Protoromantiche e rivoluzionarie», le giudica Cotroneo, in attesa di scrivere, ormai ci ha preso gusto, un vero film sulla dinastia degli Agnelli.
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