Il 10 giugno 1940, ottant'anni fa, Benito Mussolini scaraventava l'Italia nel Secondo conflitto mondiale. Il Paese militarmente impreparato pagò molto caro quell'azzardo. Ne abbiamo parlato con lo storico Gianni Oliva, il quale ha appena pubblicato La guerra fascista. Dalla vigilia all'armistizio, il secondo conflitto mondiale in Italia (Mondadori) che racconta nel dettaglio gli anni di quella lotta impari.
Professor Oliva, partiamo dal discorso di Mussolini in Piazza Venezia. Perché il Duce scelse l'azzardo?
«Secondo la vulgata fu una sorta di impuntatura caratteriale. A spingere il Duce sarebbe stata la paura che Hitler vincesse da solo. Ma in realtà la questione è decisamente più complessa. Per due motivi. Il primo: il fascismo aveva costruito nel Paese una mistica guerriera tutta basata sulla Prima guerra mondiale. La retorica dell'Italiano soldato rendeva molto difficile mantenere poi una posizione di neutralità nel momento in cui in Europa, e nel mondo, divampava un conflitto enorme. La risposta della folla alla dichiarazione di guerra è un boato. Guardato col senno del poi mette i brividi e ci dice che in quel momento gli italiani, almeno quelli che non avevano contezza della reale situazione di forza, volevano la guerra e Mussolini lo sapeva».
L'altra motivazione?
«La seconda motivazione è geopolitica. Mussolini fu, in un certo qual modo, obbligato dal dinamismo di Hitler. L'Asse con la Germania era tutt'altro che un'alleanza d'elezione. Era stata una scelta contingente, pensata anche per cercare di controllare Hitler. Quando la Germania dà una brusca accelerazione agli eventi l'Italia si trova nella complessa situazione di non riuscire più a giocare un ruolo. La sconfitta repentina della Francia rischiava di proiettare la Germania verso il Mediterraneo in cui l'Italia voleva mantenere un ruolo di potenza. Questo spinse Mussolini verso l'azzardo. C'era più paura dell'alleato che altro».
Era chiaro che di azzardo si trattava?
«Tutte le speranze si basavano sull'idea di un conflitto rapido che si concludesse a breve. Gli stessi vertici militari avevano chiaramente indicato, quando la Germania aveva aperto le ostilità, che l'Italia non sarebbe stata davvero pronta a combattere prima di due o tre anni».
Perché questo livello di impreparazione militare in un Paese pieno di retorica bellicista?
«L'Italia dagli anni Venti era stata coinvolta in un gran numero di conflitti. Dal domare le rivolte in Libia alla guerra d'Abissinia, sino alla Guerra di Spagna. Questo fece sì che si svuotassero gli arsenali e mancassero gli investimenti a lungo termine sul rinnovo delle Forze armate. La preparazione degli stessi tedeschi aveva dei limiti, ma gli italiani erano assolutamente privi dei mezzi necessari ad una guerra moderna. E per convertire, in quel senso, gli apparati industriali serviva del tempo, anche a prescindere dalla cronica mancanza di materie prime del Paese. Di fronte alle nuove teorie sulla guerra lampo anche in Italia si ragionò sul rendere più celeri le nostre divisioni. Ma sa quale fu il risultato? Si passò dalle divisioni ternarie, su tre reggimenti, a quelle binarie, ovvero su due. Rendeva più veloci gli spostamenti delle truppe? No, però moltiplicava i comandi e quindi le promozioni».
Alcuni storici hanno rilevato che in proporzione lo sforzo industriale italiano fu inferiore nella Seconda guerra mondiale rispetto a quello della Prima.
«Nella Grande guerra bisognava fabbricare in gran numero prodotti relativamente semplici: elmetti, mitragliatrici, fucili... Nella Seconda si parlava di carri armati, aerei e portaerei. Serviva una diversa pianificazione industriale, di lungo termine. Il fascismo ha influito su molti aspetti della vita nazionale. Pensi solo all'enorme impulso dato all'architettura, edifici razionalisti costruiti nel Ventennio se ne trovano ovunque. Ma in realtà, a parte la retorica, il settore bellico è uno di quelli in cui ha inciso di meno. Anche perché le forze armate che dipendevano dal Re hanno mantenuto una forte indipendenza dal Regime. Anche se erano al centro della propaganda del Partito fascista».
Agli italiani mancavano anche degli obiettivi strategici chiari?
«L'attacco alla Francia, l'abbiamo detto, è stato una sorta di scelta dell'ultimo minuto. Ma attaccare attraverso le Alpi era onestamente una mossa senza senso. Non funzionò nonostante la Francia fosse ormai militarmente agonizzante. Come diceva Clausewitz: attaccare la Francia attraverso le Alpi è come sollevare un fucile afferrandolo per la lama della baionetta. Più sensato il tentativo di spezzare la presa della Gran Bretagna sul Mediterraneo attaccando l'Egitto. Forse se tutte le forze fossero state concentrate lì, in Nord Africa, avrebbe potuto essere diverso. Ma in questo caso la condotta del generale Graziani, che portò avanti l'offensiva con eccessiva lentezza, consentì ai britannici di convogliare in zona forze da tutto il Commonwealth. E così anche quell'opportunità sfumò...».
E l'attacco alla Grecia?
«Quello sì che, forse, può essere caratterizzato come una impuntatura caratteriale di Mussolini. Resosi conto di essere precipitato in una empasse, in una gabbia, scatenò l'attacco verso la Grecia in autunno e per di più in una zona montagnosa. A quel punto sì, sull'orlo di crollare contro una nazione non proprio nota per la sua tradizione militare, l'Italia si trovò a passare in una condizione completamente subalterna ai tedeschi».
Non fummo particolarmente abili a gestire la guerra ma nemmeno a uscirne dopo la caduta di Mussolini.
«Il Re, capendo che la monarchia era a rischio, fu abile a gestire l'allontanamento del Duce dal potere e nel favorire lo scioglimento del Partito fascista. Ma coloro che festeggiavano per le strade il 25 luglio non volevano tanto la caduta di Mussolini quanto la pace. Il Re e Badoglio volevano, però, una pace negoziata che garantisse il perdurare della monarchia. Le dichiarazioni sul continuare la guerra come alleati dei tedeschi erano chiaramente ingannevoli.
Ma quei 40 giorni, sino all'8 settembre, hanno consentito ai tedeschi di portare nella Penisola tutte le truppe che volevano. Per salvare la monarchia si è condannato il Paese. Quando si pensa alla guerra bisognerebbe esaminare le responsabilità di una intera classe dirigente, non si può ridurre tutto a Mussolini e qualche gerarca».
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