«Mi chiamo Franco Cerri e faccio del jazz con la chitarra». Ottantasette anni, antipersonaggio ma colonna portante della musica italiana, Cerri così si descrive nelle prime parole del libro Sarò Franco (Arcana) scritto con Pierluigi Sassetti. Un uomo dallo stile raffinato e gentile che ha suonato con Gorni Kramer, il Quartetto Cetra, Mina ma soprattutto con Django Reinhardt, Billie Holiday, Gerry Mulligan, Jim Hall e moltissimi altri e che dichiara di «suonare piano per non disturbare».
In che senso scusi?
«Suono piano perché sono timido e una bella melodia è un racconto senza parole. Ho sempre paura di suonare troppo forte, anche se ogni tanto ai miei concerti arriva qualcuno che dice: che bello, peccato che non si sentisse granché».
Come iniziò la sua carriera?
«A 14 anni facevo il muratore, ma soffrivo troppo il freddo, così passai alla Montecatini a fare l'ascensorista. Nell'appartamento sopra il mio abitava uno della milizia che suonava gli stornelli alla chitarra. Odiavo gli stornelli, ma quel suono mi affascinò subito. Papà mi portò a casa una chitarra da 78 lire e mi disse: non ci sono soldi per un maestro, arrangiati da solo».
Quindi?
«Quindi sono autodidatta e non ho mai preso una lezione di musica. Il mio maestro è stato il mio amico del cuore Giampiero Boneschi. Lui suonava il piano e mi faceva ascoltare i dischi di jazz. E poi naturalmente Gorni Kramer».
Come vi siete incontrati?
«Alla fine della guerra si suonava nei cortili per far ballare la gente. Una sera a Milano, a Porta Genova, ad una di queste feste arrivò Kramer con la sua fisarmonica e la sua erre moscia e domandò: chi conosce i brani americani?. Nessuno parlava, ma tutti guardavano me: allora snocciolai qualche titolo e poco dopo suonavamo insieme. Non so come feci a seguirlo, però lui mi disse: vai bene perché hai la paletta. Che significa avere orecchio, poco dopo suonavo stabilmente con lui».
E con Django come andò?
«Lo incontrai tramite il manager di Kramer. Django è il miglior chitarrista di sempre, suonava come nessuno. Entrai nel suo quartetto dove c'era Stephane Grapelli al violino per suonare due mesi all'Astoria di Milano. Ma quello era un night, volevano canzoni dolci, così durammo soltanto 15 giorni. Poi andò in Usa e lavorò con Duke Ellington. Guadagnò molto ma perse tutto a carte».
Chi sono i migliori artisti con cui ha lavorato?
«Di tutti ho un buon ricordo, da Natalino Otto a Jim Hall. Ricordo con emozione Billie Holiday, grandissima e sfortunata. Venne a cantare a Milano, allo Smeraldo, quando facevano film e varietà. Con Mal Waldron al piano attaccò il blues Strange Fruit, storia di un impiccato, e fu fischiata sonoramente. Poi le organizzarono altre due date al Girolamo in cui io suonai il contrabbasso. Quando la incontrai vidi che in camerino aveva un bicchiere di Coca Cola, ma quando mi avvicinai sentii un terribile odore di gin. Cantò in modo delizioso ma dovette rimanere appoggiata ad una sedia per non cadere».
Dopo 68 anni di carriera che cosa le manca?
«Mi è mancato lo studio, ma alcuni direttori d'orchestra, compreso Riccardo Muti, mi hanno detto che è stata la mia fortuna perché almeno faccio la mia musica».
Del rock che cosa pensa?
«Non mi piace.
Lei ha fondato la Scuola Civica di Jazz di Milano dove continua ad insegnare. Ha altri progetti?
«Una tournée con l'organista Alberto Gurrisi».
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