Hollywood in ginocchio da Obama. Finisce così, quasi letteralmente, l'85esima cerimonia degli Oscar con la First Lady Michelle, annunciata da una leggenda del cinema come Jack Nicholson, a proclamare a sorpresa, dall'alto di un maxischermo sovrastante la platea del Dolby Theatre di Los Angeles, il miglior film di quest'anno. Ossia Argo, di e con Ben Affleck, sintesi perfetta di grande spettacolo hollywoodiano e di una altrettanto immensa propaganda politica. Michelle, invitata a prendere parte alla cerimonia su idea della figlia del potente produttore Harvey Weinstein, è l'immagine plastica e reale di come l'era di Obama abbia permeato Hollywood. Lo stesso presidente era apparso agli Oscar 2011 in una breve clip rivelando urbi et orbi la sua canzone preferita, As Time Goes By dal film Casablanca. Ma certo ora il collegamento dalla Casa Bianca è epocale visto che l'unico precedente risale al 1941 con Roosevelt ad aprire la cerimonia salutando via radio.
Il matrimonio tra la Casa Bianca e la grande industria dell'intrattenimento che ha finanziato generosamente la sua campagna presidenziale ha prodotto curiosamente, solo quest'anno, una serie di film storici molto politici. Con Quentin Tarantino impegnato con l'iperbolico Django Unchained a riscrivere la storia americana con un rivoluzionario «negro» «matabianchi» qualche tempo prima dell'approvazione del 13esimo emendamento contro la schiavitù voluto da Abramo Lincoln protagonista a sua volta dell'indelebile film di Steven Spielberg a cui Obama ha aperto le porte della Casa Bianca lo scorso novembre.
La figura del capo degli Stati Uniti è ovviamente centrale per gli americani ed è stata raccontata in tutte le salse, però è più che una coincidenza vedere oggi tanti presidenti sul grande schermo: il democratico Jimmy Carter intervistato nel finale di Argo che s'imbroda con la liberazione di quel pugno ostaggi dimenticando l'infausta spedizione che gli costò la presidenza per liberare tutti i 52 diplomatici ostaggi nell'ambasciata statunitense di Teheran con otto militari morti e gli elicotteri polverizzati. Il repubblicano Lincoln (quando però erano i repubblicani a essere democratici
) ad abolire la schiavitù. Lo stesso Barack Obama che appare in Zero Dark Thirty sulla caccia a Osama Bin Laden come colui che ha interrotto la pratica della tortura della precedente amministrazione Bush (i cosiddetti ed eufemistici «interrogatori intensivi») ma dell'uso dei droni assassini, tanto in voga nei suoi due mandati presidenziali, nemmeno l'ombra. E infine ecco spuntare la First Lady che dalla Diplomatic Room della Casa Bianca, frangetta d'ordinanza e vestito argenteo dello stilista di origine indiana Naeem Khan, annuncia il film vincitore con un discorso un filino retorico quanto presidenziale: «Questi nove film ci hanno fatto ridere, ci hanno fatto piangere e ci hanno insegnato che l'amore può vincere contro ogni previsione e trasformare le nostre vite. Ci ricordano che possiamo superare qualsiasi ostacolo se combattiamo e troviamo il coraggio di credere in noi stessi».
Insomma una Michelle Obama superpres(id)enzialista che pochi giorni fa, nella giornata dedicata all'educazione, aveva ospitato il cast del pluricandidato Re della terra selvaggia (Beasts of the Southern Wild). La sua sovraesposizione mediatica non è piaciuta a tutti - Facebook e Twitter sono pieni di commenti al vetriolo - e da molti viene letta come una prova generale di una possibile candidatura alla Casa Bianca.
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