“La tigre bianca” analisi lucida (e sarcastica) della lotta di classe

L’ascesa epica e, a tratti, cupamente umoristica di un giovane nell’India delle caste. Un commento sociologico aspro e un’indagine psicologica accattivante sul rapporto tra servo e padrone

“La tigre bianca” analisi lucida (e sarcastica) della lotta di classe

La tigre bianca, nuovo film Netflix Original disponibile da oggi sull’omonima piattaforma, racconta la storia di un giovane nato nei bassifondi dell'India ma destinato, non senza fatica e premeditazione, a raggiungere i più grandi hotel di Delhi.

La lotta di classe è descritta in maniera ora sottile ora spudorata, talvolta ricorrendo a humour nerissimo. Il film spiega bene cosa significhi essere schiavi di condizionamenti talmente profondi da essere ritenuti parte del proprio DNA, ma è altrettanto efficace nel mostrare come il dubbio sull’inevitabilità di un destino già scritto diventi, se instillato in un terreno fertile, il seme del cambiamento.

L’incipit vede Belram (Adarsh Gourav), il protagonista, iniziare a scrivere una lettera al primo ministro cinese che sarà presto in visita in India. Siamo nel 2010 e l’uomo è un imprenditore di successo intento a ricostruire al destinatario le tappe della propria ascesa. Con questo espediente narrativo si avvia una trama che coincide con un lungo flashback che ci riporta a quando Belram era un bambino, nato poverissimo, in una località dell’India rurale. Il piccolo eccelle a scuola e intuisce di poter essere speciale, proprio come una tigre bianca, creatura che, secondo la tradizione indiana, nasce solo una volta in una generazione. L’amara realtà, però, gli fa accantonare le illusioni: deve presto lasciare gli studi perché la sua numerosa famiglia ha bisogno di lui per sopravvivere. Imprigionato in quella che lui stesso descrive, da voce fuori campo, come una stia per polli, Belram sembra avere il destino segnato. Tuttavia, la sua lungimirante furbizia lo porta a diventare l’autista personale di Ashok (Rajkummar Rao) e Pinky (Priyanka Chopra-Jonas), coppia di indiani ricchissimi che sono appena tornati dall'America. Addestrato a essere soltanto un servitore, Belram decide di eccellere nel ruolo e di rendersi indispensabile ai suoi padroni. Maturando una visione d’insieme sempre più particolareggiata, però, qualcosa si incrina dentro di lui: una volta scoperto di non essere tanto l’anello debole quanto l’agnello sacrificale, si consegna al proprio istinto di sopravvivenza, abbracciando il proprio lato più bieco e oscuro. Aiutato da una spietatezza fino ad allora dormiente, diventerà un nuovo tipo di padrone ma ad un prezzo altissimo.

La rappresentazione delle contraddizioni dell’India contemporanea ne “La tigre bianca” è tanto puntuale quanto da brividi. Il paese ha un equilibrio fondato su dicotomie che ne farebbero una potenziale polveriera se solo i polli fossero meno polli, sempre tornando all’efficace paragone che viene fatto nel film tra le caste inferiori e i pennuti in attesa, con docile obbedienza, che le loro teste vengano mozzate. Tra tradizioni "disumane" e corruzione futuristica, il cuore del sistema indiano è vivisezionato nel film senza però che vengano fornite facili risposte sul suo futuro.

“La tigre bianca” toglie il velo d'ipocrisia sui datori di lavoro progressisti solo a parole e sui sottoposti più servili, quelli col sorriso perenne e l’adulazione incorporata. Sono ruoli sociali talmente interiorizzati da coincidere con l’identità di chi li veste.

La descrizione, in parte ironica, del miscuglio di risentimento e amore che sembra abitare chi si atteggia lieto della propria condizione di sudditanza, ha in sé un’universalità inquietante. Quando, sembra suggerire il film, l’umiltà del rango non coincide con quella delle aspettative, la situazione si fa rischiosa. Nel caso in questione, il protagonista passa dall’essere deferente in maniera autentica al deprogrammarsi di nascosto, dall’apparire preda della Sindrome di Stoccolma all’utilizzare contro i propri “carcerieri” ciò che ha imparato da loro, ovvero l’assenza di limiti morali. Camaleontico e manipolatore, Belram inizia a sfoggiare una sottomissione studiata e in lui cresce l'ambizione non più a rendersi indispensabile, ma a guadagnare alla propria vista un orizzonte più ampio. Il rovesciamento delle parti diventa per lui un'ipotesi malvagiamente attraente e il suo masochismo (perché tale è l'asservimento incondizionato) è pronto a sfociare nella nevrosi opposta.

La complessità del protagonista è senz’altro il plus di questo film diretto da Ramin Bahrani e basato sul romanzo di Aravind Adiga, un best-seller che nel 2008 ha vinto il Booker Prize.

“La tigre bianca” avvince e fa riflettere. Tra echi dickensiani e pessimismo satirico, ci si trova a fare i conti con la cruda analisi sociologica di un Paese e con una specie di trattato di psicologia della servitù. Si tratta di intrattenimento interessante e disturbante perché vive di evidenze assai scomode e squallide, per quanto geo-localizzate, come quella secondo cui "per i poveri c'è solo un modo per arrivare in alto: i crimini o la politica". Asserzioni vecchie come il mondo e fortunatamente opinabili, si dirà.

C’è però un’"insinuazione", triste nella sua fondatezza, che non viene enunciata apertamente ma che scuote in maniera amara: quella che illuminarsi, nel senso di raggiungere la consapevolezza di potersi affrancare da determinate limitazioni, possa condurre anche ad imboccare vie eticamente tenebrose.

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