"Torno sui palchi italiani per recitare Ibsen Strehler? Mi manca tanto"

A 80 anni l'attrice debutta al Verdi di Padova con "Spettri": "Un classico sempre attuale"

"Torno sui palchi italiani per recitare Ibsen Strehler? Mi manca tanto"

Gli attori evocano per mestiere, o per vocazione. Alcuni di loro per destino. Il destino di Andrea Jonasson, ogni volta che entra in scena, è quello di evocare il ricordo del suo maestro. La grande attrice tedesca dai capelli di fuoco e la voce di bronzo resta indissolubilmente legata all'arte di Giorgio Strehler, di cui fu musa, moglie, e interprete ideale, nell'ultima fase della carriera del leggendario regista.

Oggi, dopo undici anni di assenza, Andrea Jonasson - 80 anni - torna a calcare un palcoscenico italiano: sarà Helene, la tormentata madre di Spettri, il capolavoro di Ibsen, prodotto dal Teatro Stabile del Veneto e in scena dal 9 al 13 novembre al Teatro Verdi di Padova (prima di raggiungere Milano e Roma) per la regia del lituano Rimas Tuminas.

Signora Jonasson, perché proprio «Spettri», per questa attesa rentrée italiana?

«Me lo sono chiesta anch'io. È un testo che avevo già interpretato tanti anni fa, e nel riprenderlo oggi temevo che fosse un po' sorpassato. Poi, invece, mi sono resa conto che Spettri è soprattutto un classico. E che, come tutti i classici, continua a parlarci di cose che ci appartengono ancora».

Per esempio?

«Per esempio lo spirito di sacrificio. Per anni Helene tiene in piedi il mitizzato ricordo dello scomparso marito, da tutti creduto nobile e integerrimo, nonostante fosse invece un vizioso, pur di non comprometterne l'immagine agli occhi del figlio. Sacrificio che però si trasforma presto in ipocrisia. Se all'inizio lei mente per il figlio, poi si rende conto di farlo soprattutto per gli altri: per salvare le apparenze ed evitare il giudizio della società. Ma quando ne diviene consapevole ecco prevalere in lei il coraggio di dire la verità. La parabola del personaggio è completa. Ed è una parabola positiva, che insegna molte cose».

C'è tuttavia un aspetto del capolavoro di Ibsen che può sfuggire allo spettatore contemporaneo.

«Sì. Il tema della sifilide, di cui è malato il ragazzo. All'epoca di Ibsen si pensava che questa malattia fosse ereditaria. Le colpe del padre, insomma, che ricadono sul figlio. Anche per questo Helene è combattuta se rivelare o meno al ragazzo la reale natura viziosa del padre. Incolpare lui della sua malattia significherebbe liberargli la coscienza ma, al tempo stesso, rovinargli l'immagine del genitore, che tutti credono un santo».

Come si è trovata con un regista come Tuminas?

«All'inizio con qualche difficoltà. Strehler mi aveva abituata ad essere seguita passo passo; Tuminas non parla una parola d'italiano, la comunicazione è stata complessa. Per l'anteprima, lo scorso inverno a Venezia, invece dei necessari mesi di prove abbiamo avuto solo quattro settimane. Per fortuna il teatro fa miracoli: ancora oggi riesco a viverlo con la stessa emozione dei miei inizi. E la stessa cosa è per lui. Così non è stato impossibile trovare il modo di condividere lo stesso progetto. E ora lo spettacolo ha preso il volo».

E tornare a recitare in italiano, dopo un intervallo di undici anni?

«In questo decennio ho recitato soprattutto a Vienna, in tedesco. Ma è stato come risalire in bicicletta dopo un po' di tempo: qualche incertezza all'inizio, presto superata. Ormai l'italiano fa parte di me. Posso esprimermi senza alcuna differenza nella vostra bella lingua, che amo appassionatamente, come nella mia».

Come ha vissuto il centenario della nascita di Strehler? Trova sia stato adeguatamente celebrato?

«Forse si sarebbe potuto fare qualcosa di più. Ma d'altra parte mi rendo anche conto che mostre, libri, interviste, documentari, tutto quello che si fa in questi casi non sarebbe comunque riuscito a cogliere la complessità della sua arte. Chi non ha conosciuto Giorgio di persona non può comprenderne tutto il genio. Quanto a me, ho vissuto questo centenario con intensa partecipazione. E molto dolore.

Mi manca tanto, Giorgio. In scena non trovo più la sua fantasia inesauribile, la sua fedeltà ai testi, la modernità rispettosa del suo approccio. Nella vita mi sento priva della sua umanità, della sua grandezza, del suo coraggio».

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