Truffe, caso, ironia. I racconti di Codazzi sono teatro comico

Percorrere i racconti de "Lo storiografo dei disguidi" è come tornare a casa, perché l'arte di narrare vi ridiventa un mestiere difficile in cui non esistono scorciatoie

Truffe, caso, ironia. I racconti di Codazzi sono teatro comico

La citazione in esergo è da applauso: «Ne La saggezza del bibliotecario, Michel Melot cita un guru dell'informatica secondo il quale il libro, se fosse venuto dopo l'ebook, sarebbe stato salutato da tutti come un formidabile progresso». Guarda caso, si potrebbe dire lo stesso delle opere di Paolo Codazzi: vista la pletora di autori dominati dal sole nero della melanconia o sventaglianti lo specchietto per le allodole dell'impegno civile, percorrere i racconti de Lo storiografo dei disguidi (Arkana, pagg. 141, euro 14) è come tornare a casa, perché l'arte di narrare vi ridiventa un mestiere difficile in cui non esistono scorciatoie. La scrittura è attraversata da un'ironia che vira nel derisorio senza cadere nel cinismo; l'enciclopedismo è mobilitato per ottenere il contrario di ciò che di solito evoca, la noia; lo stile si avvale delle cospicue risorse letterarie dell'italiano evitando ogni bellettrismo e tutto cospira in direzione dell'effetto concreto: il piacere di leggere e il riso.

In ognuno di questi racconti c'è una truffa che si ventila, una maschera da sollevare; teatro comico non privo di sfumature sinistre, reso possibile dall'infinita combinatoria prodotta dal genere umano cui Codazzi allude con una formula desueta: quella dello «spazio campionario», cioè del calcolo della probabilità. Un tema che nel racconto L'insonnia di Garibaldi toglie il sonno nientemeno che all'Eroe dei due mondi. O almeno è quanto crede l'uomo che scopre, in casa del padre defunto, un epistolario che porta la sua firma, indirizzato a matematici. A quanto pare il Generale, quando non era impegnato a combattere o ad accrescere con il più piacevole dei sistemi il numero di abitanti del pianeta, bramava di ricondurre l'arte della guerra al «calculemus!» di Leibniz, cioè a qualche facile algoritmo. Lo spunto narrativo è magistralmente sceneggiato: organizzata una conferenza presso la Società matematica, l'aula è invasa da un gruppo di garibaldini che con modi spicci ingiungono al relatore di vendere loro il carteggio. La scena finale si svolge in commissariato, ma lasciamo al lettore il piacere di scoprire come va a finire.

In un altro racconto, un borgo depresso si riempie di turisti quando alcune lettere cadono da un cartello della stazione, modificando in modo efficacemente pubblicitario il nome del paese. E poi ambulanze che finiscono in un fosso per uno scherzo, sopravvissuti a catastrofi che dopo trent'anni scoprono l'inganno alla base del loro destino, impostori familiari...

La lezione di Pirandello, ma anche lo zolfo surrealista di Savinio e quello metafisico di Landolfi inquadrano alla perfezione il prisma dell'imbecillità universale, a volte fatto brillare dallo sguardo scandalizzato di un bestiario morale, cani o cinghiali, allibiti di fronte allo spettacolo poco edificante di quelli che dovrebbero essere, e non sono, animali razionali.

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