"Turandot" con brivido Il raro finale di Berio ne decreterà il successo

Chailly oggi dirige l'opera di Puccini nella versione ultimata dal compositore contemporaneo. Un rischio calcolato...

"Turandot" con brivido Il raro finale di Berio ne decreterà il successo

Il cuore di Giacomo Puccini cessò di battere il 29 novembre 1924. Un disperato tentativo di operare a Bruxelles il tumore alla gola che lo attanagliava si trasformò in agonia. La fine fu seguita in ogni angolo del mondo: Puccini era l'operista contemporaneo più rappresentato e amato. Fra i suoi disperati pensieri, negli ultimi foglietti indirizzati ai familiari, c'è il commovente rammarico di aver dovuto lasciare incompiuta l'ultima opera, Turandot . Celebrate le solenni esequie nel Duomo di Milano, iniziò la ricerca, davvero impervia, di chi potesse completare la scena finale, quella del cosiddetto «sgelamento». Alla fine del terzo atto dell'opera, che i librettisti Giuseppe Adami e Renato Simoni avevano tratto dalla celebre fiaba teatrale di Carlo Gozzi, Turandot, non essendo riuscita a scoprire l'identità del Principe Ignoto, nemmeno torturando la sventurata schiava Liù, viene finalmente «sgelata» dal bacio del Principe in un lungo duetto finale. Una mutazione, quella da sadica principessa ad appassionata amante, che Puccini sosteneva di aver già tutto in mente e per il quale voleva scrivere qualcosa di nuovo, lasciando in un appunto un suggestivo richiamo a Wagner («come Tristano»).

Per questo compito che avrebbe fatto tremare non pochi musicisti fu scelto dai gerenti di Casa Ricordi, editori di Puccini, Franco Alfano, esponente di spicco del Novecento storico, autore della fortunata e pucciniana Resurrezione (1904) e soprattutto della sontuosa ed esotica Leggenda di Sakùntala (1921). Arturo Toscanini che in quegli anni era la Scala, si assunse il compito di darne la prima esecuzione, sanando così una frattura - quella fra la Scala e Puccini - che durava dallo storico fiasco di Butterfly . Puccini, infatti, preferì dare le sue «prime» successive ( Fanciulla del west e Trittico ) al Met, a New York. Una ferita rinnovata, sei mesi prima di morire, dal divieto toscaniniano che Puccini entrasse alla prova generale di un'altra incompiuta, il Nerone di Arrigo Boito. Erano stati riferiti al Maestro alcuni commenti ironici: questo fu sufficiente per l'umiliante diniego. I rapporti personali fra Toscanini e Puccini si erano già guastati per l'opinione negativa (e ingiusta) di Toscanini sul Trittico. Non stupisce che, quando Toscanini respinse la prima versione presentatagli da Alfano, circolarono voci che alla seconda Alfano fosse stato costretto, obtorto collo, dal Maestrissimo che voleva solo una chiusa stringata e teatrale (ma insufficiente). La sera della prima rappresentazione assoluta, il 25 aprile del '26, Toscanini si interruppe dove la penna di Puccini si era fermata. Le sue parole destarono enorme commozione. Alla seconda recita non tornò sul podio: il finale di Alfano lo eseguì il maestro Hector Panizza, cui furono affidate le repliche. Questo la dice lunga sull'opinione di Toscanini anche su Turandot. Durante le prove si lamentava con uno dei suoi collaboratori più fidati, Antonino Votto, per l'eccesso di cambiamenti di metro nella scena delle tre maschere: erano cineserie solo per seguire la moda dei «suoi francesi» (Ravel e Debussy); e brontolava che per fare successo aveva messo «in bocca al tenore due canzoni napoletane». Come se tutto fosse solo abilità artigianale e astuzia sentimentale. Il fatto che Puccini si fosse arenato proprio davanti all'happy end, è comunque molto significativo. Per l'edizione che oggi festeggia l'apertura di Expo alla Scala di Milano, il maestro Riccardo Chailly, ha optato per un nuovo finale, scritto da Luciano Berio nel 2001. «Luciano era letteralmente infiammato da quest'opera durante le prove d'insieme fatte a Las Palmas», ha testimoniato Chailly ricordando quando ha battezzato il nuovo finale a Las Palmas di Gran Canaria, «e mi diceva nell'intervallo: Ma noi italiani l'abbiamo capito a sufficienza il primo atto di Turandot? È la musica italiana più importante della prima metà del Movecento!».

Le parole di Berio sono sorprendenti, perché pronunciate da un musicista di rango appartenente ad una generazione e ad una cintura culturale che menzionava il nome di Puccini solo in modo schizzinoso. «Per le parti nuove, Berio non voleva imitare lo stile di Puccini ma realizzare un collage vivo delle sue intenzioni musicali, come ha fatto con Rendering su musiche di Schubert. Non si è travestito da Puccini, ma ha scritto autonomamente, partendo dal suo linguaggio e dai suoi temi. I ponti che uniscono uno schizzo all'altro hanno anche qualcosa di personale, ma con una funzione di collegamento: uno stile diverso che si modula con l'originale».

C'è grande attesa: la realtà esecutiva dirà se Luciano Berio aveva ragione.

Turandot di Giacomo Puccini, oggi alla Scala di Milano. Dirige Riccardo Chailly. Regia di Nikolaus Lehnhoff. Cantano Nina Stemme, Aleksandrs Antonenko, Maria Agresta e Aleksej Tsymbalyuk .

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