Uomini, caporali o... re? Storia d'Italia secondo Totò

Film, sfottò, censura: il rapporto con la politica del Principe della risata in un saggio di Emilio Gentile

Uomini, caporali o... re? Storia d'Italia secondo Totò

«La via italiana al totòlarismo». Dalla storpiatura che la mamma dello storico Emilio Gentile fece del titolo del suo libro del 1994, La via italiana al totalitarismo, nasce l'idea del nuovo e interessante saggio Caporali tanti, uomini pochissimi - La storia secondo Totò pubblicato da Laterza (pagg. 178, euro 14) in cui la storia d'Italia viene affiancata a quella di Antonio De Curtis, nato il 15 febbraio del 1898, a cui il tribunale di Napoli, nel 1945, riconobbe il diritto di fregiarsi di nomi e titoli, dal padre Giuseppe De Curtis (di famiglia nobile ma spiantata), quali Antonio Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio. Ossia «sua altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, eccetera eccetera...», insomma, per tutti e per sempre, Totò.

Non è nelle intenzioni dell'autore tirare il grande comico per la giacchetta del colore politico ma solo farsi delle domande. Totò fascista? Non esistono tracce di dichiarazioni a favore del Duce che oltretutto non aveva in grande considerazione Totò da lui definito «pagliaccio» anche se, in un colloquio trascritto con il capo della censura Leopoldo Zurlo, conveniva che la sua «era una satira fatta con intelligenza e nei giusti limiti». Totò ha ovviamente vissuto tutta la parabola del fascismo ma, a parte alcune foto che nel 1940 lo ritraggono con il distintivo del Pnf sull'occhiello, ha sempre mantenuto fede alla sua distanza dalla politica perché, diceva, «sono un attore, debbo piacere a tutti».

Totò antifascista? Anche qui lo storico non trova alcun appiglio mentre al cinema, nel 1962 ne I due colonnelli, Totò nei panni dell'alto ufficiale Antonio Di Maggio da «caporale» si trasforma in «uomo» opponendosi all'ordine di bombardare un villaggio di un maggiore tedesco che gli dice di avere «carta bianca»: «E ci si pulisca il culo!» la sua risposta. È evidente però che la sua satira fosse indirizzata soprattutto a quegli odiati «caporali», così, a cavallo del secondo conflitto mondiale, nelle varie riviste scritte da Michele Galdieri che Totò interpretò con Anna Magnani, tantissimi erano i riferimenti alla Storia in guerra. Ma se, come disse, «il fascismo permetteva che lo si prendesse in giro, e noi lo facevamo con garbo e senza essere mai triviali», andava peggio con gli ufficiali tedeschi che, capendo l'italiano, invocarono l'intervento del questore nei giorni drammatici dell'attentato di via Rasella, il 23 marzo 1944. Totò si dovette nascondere fino alla liberazione della capitale, il 5 giugno, perché aveva saputo che stava per essere arrestato e portato al Nord con Titina, Eduardo e Peppino De Filippo.

Ma il grande comico ancora non immaginava che l'intolleranza verso la satira fosse una malattia senza vaccino anche in democrazia. Anzi, nel 1945, nella Firenze liberata, si prese un pugno in pieno volto da un tizio (un comunista a digiuno delle lingue?) a cui non era piaciuta la battuta «Camarade o compagno è lo stesso» (per l'assonanza con camerata ma camarade in francese significa «compagno»): «Anche la Liberazione, forse pensò, ha i suoi caporali», annota Emilio Gentile che si lancia nell'ipotesi che il principe De Curtis abbia votato per la Monarchia anche se Totò più avanti, nel 1957 uscito dall'ufficio di Achille Lauro, il sindaco monarchico di Napoli per il quale nutriva grandissima simpatia, smentì di aver mai ricevuto o chiesto la tessera del Partito monarchico.

Sono gli anni dell'egemonia democristiana che mantenne la legislazione censoria e mostrò verso i film di Totò «un accanimento maggiore di quello esercitato dal regime fascista». Così, nel celebre comizio del personaggio di Pasquale Miele del film Napoli milionaria di Eduardo De Filippo (1950), troviamo un'esplicita dichiarazione di sfiducia nella nuova democrazia.

Totò di destra o di sinistra? «Poi dice che uno si butta a sinistra!» è una famosa paradossale battuta di Totò e i re di Roma ma, quando glielo chiesero sul set di Uccellacci e uccellini di Pasolini (1966), rispose: «Uh che domanda! Io sono apolitico, un attore non deve occuparsi di queste cose». Antonio De Curtis però, sempre quell'anno, non aveva timore a esprimere le sue idee per le quali, oggi, sarebbe lapidato: «Sono un uomo antichissimo, antico come idee: non mi piace la musica yè-yè, non ammetto l'uguaglianza delle donne perché la donna è la regina della casa, è la madre dei nostri figli, la compagna dell'uomo, la sua consolatrice, la sua metà». Di conseguenza «niente divorzio, niente libertà sessuale, niente uguaglianza dei sessi e altre schifezze».

Ciononostante, e per fortuna, la critica di sinistra, dopo averlo bistrattato, a partire dal 1972, grazie agli studi di Goffredo Fofi inizia a rivalutarlo definendolo anarchico, libertario, sovversivo, antigerarchico (negli stessi giorni però Moravia scriveva del suo «qualunquismo deprimente e sguaiato che è proprio della piccola borghesia italiana»), rubando così alla critica di destra (se mai è esistita) la possibilità di celebrare un grande conservatore quale sicuramente era il principe De Curtis. Che, a chi lo tirava per la giacchetta, rispondeva nel 1962, cinque anni prima di morire: «Voi dimenticate che un sovrano non vota...».

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