Il vero evento del 2019 è Rimbaud tirato a lucido

Nuova, importante edizione dell'opera omnia del poeta veggente di Francia. Tutto da rileggere

Il vero evento del 2019 è Rimbaud tirato a lucido

A rthur Rimbaud non è un poeta: è l'inafferrabile. Arthur Rimbaud non si legge: si imbraccia. Le sue poesie, intendo, sono una regola, pretendono una scelta, l'espatrio da sé («Perché Io è un altro»), l'estinzione di ogni grammatica, l'«immenso e ragionato sfasamento di tutti i sensi», come scrive il poeta all'amico Paul Demeny, poco più che sedicenne, nel 1871, ricordandogli, però, poco dopo, in altra lettera, «bruci, lo esigo, e credo che lei rispetterà la mia volontà come si rispetta quella di un morto, bruci tutti i versi che fui abbastanza sciocco da consegnarle».

Vedete, Rimbaud non è un poeta: è l'inafferrabile; è un ragazzo in fuga. Fugge da tutto, da tutti, dalla casa «miglior allievo della scuola», a dire del preside del collège di Charleville, scappa, la prima di molte volte, quindicenne: direzione Charleroi, a piedi, poi Parigi, in treno, segue arresto per vagabondaggio , dalla letteratura pubblica quasi nulla, «tre poesie... una satira politica in prosa e un opuscolo, certo della massima importanza, Une saison en enfer, ma la cui tiratura rimase per decenni nel magazzino della tipografia poiché le spese di stampa non furono mai pagate» , da se stesso («Immagino che la mia vita stia andando a rotoli»; «Mi annoio molto, sempre; anzi, non ho mai conosciuto nessuno che si annoi quanto me», scrive ai familiari, nell'allucinato epistolario africano, tra Il Cairo e Harar). Rimbaud, l'inafferrabile, le cui poesie sono fiaccole piantate nel gorgoglio del caos, norme per una esistenza capovolta, a redimere l'orrore in reame. Rimbaud ci sfida, con candida spavalderia e astuzia bianca: ciascuno trova specchiata, nella sua leggenda, la propria voglia, la propria colpa. «Volto perfettamente ovale d'angelo in esilio Poeta Maledetto», lo disse, sognandolo, Paul Verlaine; «Un santo, un martire, un eletto», lo beatificava la sorella, la pia Isabelle; «Quasi tutta la poesia moderna che sia veramente poesia e non paccottiglia di calchi infedeli, esce da lui», gridava Papini, e Valéry gli faceva eco, con più grazia, «Ogni letteratura nota è scritta nel linguaggio del senso comune. Eccetto Rimbaud». Secondo François Mauriac, Rimbaud «ha vissuto mille vite e ha solo sete di assoluto», secondo Breton «è surrealista nella pratica della vita e altrove», René Char si rivolgeva a lui come ad «Arthur il Folle» e lo esaltava, «Hai fatto bene a partire, Arthur Rimbaud!». Delmore Schwartz lo ha tradotto, Patti Smith lo ha imitato, Alberto Vecchioni lo ha cantato, Leonardo Di Caprio lo ha interpretato. Di per sé, Rimbaud si è descritto nella Stagione all'inferno («Dei miei antenati galli ho l'occhio bianco azzurro, il cervello piccolo, e la goffaggine nella lotta. Trovo che il mio abbigliamento non sia meno barbaro del loro. Ma io non metto burro nei capelli»), ha sbandato la poesia fino all'indicibile (le cosiddette Illuminazioni forzano in estremo l'arte di combinare emozioni e immagini, sono volti e voli perfetti vetrificati dai millenni: se provi a studiarli, a «toccarli», si disintegrano), ci ha fatto capire che la poesia non va scritta né letta, va abitata, va vissuta. Così, dopo aver scritto Il battello ebbro, semplicemente, un certo giorno di primavera del 1876, Rimbaud, in Olanda, si arruola come soldato presso l'ufficio di reclutamento coloniale e parte per Giava. Non scriveva più da tempo, ha idea di muoversi verso luoghi dove l'uomo, per consuetudine, arretra, non arriva dopo l'Indonesia, sarà Cipro, l'Egitto, Aden, Harar, Gibuti, la Somalia, in un desertificante desiderio di giungere al «cuore di tenebra». Vuole capire se il mondo è davvero come lo ha immaginato, da poeta, molti anni prima: «Ho urtato, sapete, Floride incredibili/ Fra fiori e occhi di pantera dentro pelli/ D'uomo! Arcobaleni tesi come briglie/ Nell'orizzonte dei mari, a glauche greggi!// Ho visto fermentare paludi enormi, nasse/ Dove marcisce dentro i giunchi un Leviatano!». Secondo Olivier Bivort, che ha curata una nuova, sgargiante edizione delle Opere di Rimbaud per Marsilio (pagg. 848, euro 20,00; la traduzione è di Ornella Tajani), un vero evento editoriale, «L'insoddisfazione è al cuore del lavoro poetico di Rimbaud, e forse della sua stessa vita». Inafferrabile, insoddisfatto, poeta in perpetua fuga.

Julien Gracq, l'immenso scrittore francese, crede (in Un centenaire intimidat) che la poesia di Rimbaud sia distante («non ci è mai stato molto vicino») e spietata, marziale, «solare, turgida, bagnata nell'ozono... perciò il suo invecchiamento è quasi impensabile». Soprattutto, Gracq incardina sull'opera di Rimbaud un aggettivo terribile, benché addolcito dall'avverbio: essa è «abbastanza inumana».

La poesia di Rimbaud, in effetti, è una tratta senza trattative, afferra e spaventa, costringe a fare esperienza dell'inumano. Non si sfoglia: si partecipa fino al precipizio. Se non siete pronti all'ignoto, allora, restate in sala da pranzo, tra poco si serve il tè, buona giornata. Per gli altri, è apparecchiata la notte, la lotta.

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